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Sit justiciarius omnium terrarum”:

il privilegio di esercitar giustizia

In ottica strumentale va anche inteso il privilegio forse più importante concesso da Guglielmo nel suo primo diploma a Santa Maria Nuova, compreso nella formula “sit iustitiarius omnium terrarum”.

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Nella prassi seguita dal governo regio per la dotazione di una signoria era norma comune assegnare – unitamente al dominio sul territorio – un’autorità giudiziaria sugli uomini ivi residenti, che si concretizzava però esclusivamente nell’esercizio della bassa giustizia e delle cause civili, escludendo il diritto penale, che restava nelle mani del sovrano. La concessione ai vescovi dell’immunità dall’autorità e dal controllo pubblico sulla città della sede vescovile e su un cerchio di qualche miglio intorno alle mura urbane, era del resto una prassi consolidata dal periodo carolingio in poi e con notevole frequenza negli anni intorno al Mille:  da questa, discendeva nei fatti il riconoscimento del diritto del vescovo a esercitare poteri non più affidati ai rappresentanti del re.

Cfr.

G. Sergi, Villaggi e curtes come basi economico-territoriali per lo sviluppo del banno, in Curtis e signoria rurale. Interferenze tra due strutture medievali, a cura di G. Sergi, Torino, Scriptorium 1997 (I florilegi), pp. 7-24:13. 

Sull’argomento v. anche G. Salvioli, L’immunità e la giustizia della Chiesa in Italia, in Atti e Memorie delle RR. Deputazioni di Storia Patria per le Provincie Modenesi e Parmensi, s. III, 5 (1888), pp. 29-151.

In molti casi inoltre, l’esercizio positivo dell’immunità – termine che insieme ai privilegi fiscali designava anche il divieto agli ufficiali regii di penetrare, per qualsiasi motivo, nel territorio ecclesiastico – era sanzionato formalmente con la solenne concessione del districtus e la delegazione al signore di alcuni poteri civili giudiziari sugli abitanti.

Cfr.

M. Bloch, La società feudale, Torino, Einaudi 1987 (Reprints Einaudi, 10), p. 408; tit. or.: La societè feòdale, Paris, Michel 1968 (L’evolutiòn de l’humanitè).

I poteri di districtio attribuiti dagli imperatori ai presuli a partire dal X secolo, hanno costituito l’oggetto di un acceso dibattito storiografico, che ha avuto come principali protagonisti Eugenio Duprè Theseider, Vito Fumagalli, Giovanni Tabacco e Giuseppe Sergi, da cui la questione è stata efficacemente sintetizzata in G. Sergi, Poteri temporali del vescovo: il problema storiografico, in Vescovi e città nell’alto Medioevo: quadri generali e realtà toscane. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Pistoia, 16-17 maggio 1998), a cura di G.P. Francesconi, Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte 2001 (Biblioteca storica pistoiese, 6), pp. 1-16.

 

Dopo la fondazione del Regno, nel 1130, Ruggero II aveva avocato a sé la cognizione dei reati più gravi promulgando l’assisa Que sint potestas iustitiarii,con la quale assegnava ai giustizieri regii i delitti più gravi, ai baiuli i reati di minore entità.

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Nel testo tramandato dal codice Cassinese 468 si legge infatti:

Sancimus ut latrocinia, fracture domorum, insultus viarum, vis mulieribus illata, duella, homicidia, leges parabiles, calumpnie criminum, incendia, forisfacte omnes, de quibus quilibet de corpore et rebus suis mercedi curie debeat subiacere, a iustitiariis iudicentur, clamoribus supradictorum baiulis depositis, cetera vero a baiulis poterunt definiri.

Le Assise di Ariano, tratte dai codici Vaticano e Cassinese delle Assise. Testo critico, traduzione e note a cura di O. Zecchino, Cava dei Tirreni, Di Mauro 1984, p. 96.

 

L’uso prevalente presso i sovrani normanni era stato dunque quello di concedere, con l’investitura feudale, la iurisdictio simplex, mantenendo la riserva regia per la giustizia criminale, come attestano anche i casi della diocesi di Catania – che rappresenta l’esempio più antico di attribuzione giurisdizionale ceduta dall’autorità sovrana ad un signore feudale –  e di Cefalù, i cui vescovi erano stati investiti della giurisdizione civile e penale da Ruggero II.

 

 

 

 

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Il diritto venne concesso da Ruggero I ad Angerio, primo abate-vescovo di Sant’Agata, nel 1092 e fu mantenuto fino al 1239, cfr.

L. Sorrenti, La giustizia del vescovo a Catania (secoli XII-XIII), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI cit., pp. 37-66.

L’esercizio delle prerogative giudiziarie sui civibus Cephaludanis, conferito ai  vescovi di Cefalù nel 1145, escludeva le «regalibus nostre maiestatis, fellonia videlicet, traditione et homicidi», cfr.

Rollus Rubeus. Privilegia Ecclesie Cephaleditane, a diversis Regibus et Imperatoribus concessa, a cura di C. Mirto, Palermo, Società siciliana per la storia patria 1972 (Documenti per servire alla storia di Sicilia, s. I), pp. 42ss., 50 s.; R. Pirri, Sicilia Sacra cit., II, p. 800; Rogerii II. Regis diplomata latina, ed. C. Bruhl, Koln Wien 1987, n. 19, p. 197ss.; L.T. White, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna cit., p. 104ss.

 

Il conferimento del giustizierato alla diocesi di Monreale con la cessione della giurisdizione in criminalibus, distinguerebbe dunque il privilegio per Santa Maria Nuova dagli altri, antecedenti e successivi la costituzione del Regno, e sarebbe un unicum nel contesto di una politica rigidamente accentrata; per questa via si confermerebbe parallelamente l’importanza dell’istituzione ecclesiastica, resa a tutti gli effetti una vera e propria signoria territoriale.

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Sul concetto di signoria ecclesiastica come tipo particolare di signoria immunitaria v.

C. Van De Kieft, Étude sur le chartier et la seigneurie des prieurés de la Chapelle-Aude (XIe-XIIIe siècles), Amsterdam, Les Belles Lettres 1950, pp. 145-155.

Per un confronto con il resto dell’Europa cfr. i contributi contenuti in Chiesa e mondo feudale nei secoli X-XII cit., ed in particolare, per la Francia:

O. Guyotjeannin, La seigneurie épiscopale dans le royaume de France (Xe-XIIIe siècles), pp. 151-191;

per l’Inghilterra:

M. Brett, The English Abbeys, their tenants and the King (950-1150), pp. 277-302;

per la Spagna:

P. Linehan, The Church and Feudalism in the Spanish Kingdoms in the Eleventh and Twelfth Centuries, pp. 303-331.

Il raro esercizio delle funzioni di alta giustizia, che si connetteva ai diritti di foro e alla possibilità di incamerare le multe del tribunale ecclesiastico, accompagnando dunque gli ampi poteri fiscali e giurisdizionali assegnati alla fondazione religiosa, contribuisce ad illuminare ulteriormente anche il programma di latinizzazione di cui la chiesa doveva essere la reificazione, caratterizzato non da un’opera evangelizzatrice della popolazione musulmana soggetta al dominio monrealese, quanto piuttosto da un processo di ricolonizzazione che radicava, nella Sicilia Occidentale, una salda struttura signorile partendo proprio dal territorio e dalla soggezione della popolazione alla terra, sottoposta ad obblighi villanatici e giurisdizionali.

Restavano invece di competenza regia i casi penali punibili con la pena di morte o con la mutilazione, cfr.

L. T. White, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna  cit., p. 104.

Che, in generale, il monachesimo latino abbia operato nel senso della latinizzazione attraverso meccanismi di tipo economico e sociale più che mediante un’opera di evangelizzazione, è opinione diffusa in ambito storiografico internazionale e corroborata dal fatto che non si rinvengano, sui territori soggetti alla dominazione benedettina, tracce di una religiosità con caratteri originali. Per queste considerazioni, cfr.

L.T. White, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna cit., in part. pp. XIV-XV.

Sull’esercizio della giustizia sui contadini v.

B. Andreolli, Coloni dipendenti e giustizia signorile. Una verifica in base alla contrattualistica agraria dell’Emilia altomedievale, in I contadini italiani dal Medioevo ad oggi. Indagini e problemi storiografici, a cura di F. Cazzola, Bologna, Il Mulino 1986, pp. 33-35.

Il dibattito giuridico-formale sull’estensione e la qualificazione pubblicistica di tale controllo è ben noto agli storici del diritto, che ne registrano scrupolosamente le varie sfumature, ma è tardo e riflette una situazione già matura del fenomeno.

 

 

 

L’introduzione di un ambito giuridico-istituzionale distinto da quello sacramentale, formalizzava inoltre la transizione della chiesa da una impostazione locale e orizzontale ad una universale e verticale1 : integrato profondamente nella società civile, il potere arcivescovile monrealese manteneva infatti un’impronta di intoccabile diversità che, tradotta in ambito territoriale, poteva dare anche origine a spinosi conflitti di competenza e turbare – paradossalmente – la stessa influenza sovrana sulla chiesa.

In proposito Paolo Prodi, che ha individuato un carattere e un valore della storia europea nella tensione tra i fori, gli ordinamenti e le autorità della Chiesa, risolvendo i rapporti tra tali autorità e i loro tribunali in termini di soggezione e disciplinamento, ha sostenuto che la caratteristica qualificante dell’Occidente come civiltà continuamente mobile o rivoluzionaria «è la dialettica tra queste istituzioni in concorrenza tra di loro per normare la vita dell’uomo»2.

 

Se l’adozione di tale approccio, ponendo al centro della convergenza tra potere politico e giurisdizione ecclesiastica la collaborazione prestata da questa al controllo sociale, all’esercizio dell’autorità, al mantenimento dell’ordine pubblico, ha talvolta condotto a trascurare le iniziative strategiche complesse, che facevano dei fori laici ed ecclesiastici risorse diverse, potenzialmente alternative e concorrenti, nel caso della giurisdizione monrealese si potrebbe forse parlare di un rapporto realmente collaborativo con il potere sovrano, instituito nei termini della strumentalizzazione e dell’integrazione di valori e pratiche complementari che avrebbero consentito – più che la sua stessa scarna struttura – il concreto funzionamento del tribunale vescovile.

 

 

Alla luce di queste considerazioni dovrebbe essere probabilmente compresa anche la successiva approvazione  del privilegio compiuta da Enrico VI, in data 22 aprile del 1197 (ind. XV) ma non trascritta nel cartulario3.

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Non riconobbe invece la legittimità della trasmissione di tale diritto – ritenendolo inalienabile – Federico II. Uno dei punti nodali attorno ai quali si era sviluppata la costruzione monarchica dello svevo era stato proprio la centralità del tema della giustizia e il duplice ruolo di creatore e tutore del diritto che il sovrano assumeva  come garante degli ambiti giurisdizionali esistenti.

In proposito, Beatrice Pasciuta ha sottolineato come «l’enorme rilevanza, anche quantitativa, delle norme riguardanti l’assetto istituzionale giudiziario e la riorganizzazione del sistema processuale confermano i numerosi riferimenti teorici alla centralità del tema della giustizia nell’assetto statale fridericiano. E tuttavia manca a tutt’oggi uno studio specifico che abbia per oggetto l’analisi delle norme fridericiane in materia di giustizia (…)»,

B. Pasciuta, Procedura e amministrazione della giustizia nella legislazione federiciana: un approccio esegetico al Liber Augustalis, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo, 45/2 (1998), pp. 363-412.

Sancendo che nessun barone potesse utilizzare diritti inerenti alla Corona – e in particolare quello di amministrare la giustizia criminale – e abolendo il privilegio di foro, l’Imperatore finiva quindi con l’affermare che l’unica giustizia possibile fosse proprio quella amministrata dalla Curia Regia, cui venivano demandati anche i processi di giustizia ordinaria.

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Nella costituzione I,64 (De judicibus per imperialem celsitudinem promovendis) Federico II stabiliva infatti che:

judices de questionibus cognoscentes per nostram celsitudinem debeant promoveri, adjunctos et admezatores qui per privatorum consensus ad decidendas questiones in predictis locis (…) eligebantur hucusque, qui nullam aliam jurisdictionem habebant nisique ab eligentibus conferebatur eisdem, in posterum eligi prohibemus, sed per judices tantum a nobis statutos coram eorum bajulis et compalatiis causas omnes examinari volumus et per sententiam terminari,

Constitutiones Friderici II Imperatoris I, 64, in Historia diplomatica Friderici secundi sive Constitutiones, privilegia, mandata, instrumenta quae supersunt istius imperatoris et filiorum ejus, 6 tomi in 11 voll., a cura di J.L.A. Huillard-Breholles, Paris 1852-1861; ed. anast. Torino, Bottega d’Erasmo 1963, IV, p. 57.

Il divieto per tutti i sudditi del regno, sia laici che ecclesiastici, di adire fori, prescriveva anche la pena, per i trasgressori, di confisca di beni mobili e immobili.

Beatrice Pasciuta ricorda inoltre come la tendenza a limitare l’ambito di giurisdizione privilegiata riservato agli esponenti del clero si manifestasse, sul piano normativo, con ulteriori disposizioni di diretta produzione fridericiana 4: la costituzione Si quis clericus de haereditate ad esempio, restringeva le competenze delle curie ecclesiastiche sui chierici, prescrivendo agli ecclesiastici in possesso di beni ereditari di provenienza non ecclesiastica di comparire in giudizio presso il tribunale ordinario competente per il territorio, con l’unico privilegio di non poter essere arrestati.

Constitutiones Friderici II Imperatoris I, 47:

«Si quis clericus de haereditate vel aliquo tenimento quod non ab ecclesia, sed a nobis vel ab alio aliquo per patrimonium, sive aliunde, teneat, appellatus fuerit, volumus ut de hoc in curia illius in cujus terra possessionem vel tenimentum habuerit, respondeat et quod justum fuerit faciat; non tamen ut persona sua exinde capiatur vel incarceratur»,

in Historia diplomatica Friderici secundi cit., IV, p. 40.

L’orientamento veniva confermato anche nel 1240, con la novella De burgensaticis, nella quale veniva stabilito che gli ecclesiastici convenuti per azioni pecuniarie o relative a beni burgensatici ne dovessero sempre rispondere presso il foro civile competente, senza considerare la condizione personale dei soggetti in causa.

Non è chiaro però se le disposizioni di Federico abbiano avuto un riscontro effettivo sul territorio dominato dalla diocesi di Monreale. Se è possibile ipotizzare un’eventuale interruzione delle attività connesse all’esercizio del giustizierato da parte dell’arcivescovo in epoca federiciana, è certo che il privilegio fu mantenuto a posteriori, come attesterebbe il documento con cui il vicerè Giovanni Moncada confermava all’arcivescovo Ausias des Puig il titolo di giustiziere nei territori della sua diocesi, con facoltà di istruire processi civili e criminali e di fondare una sede del proprio tribunale in ogni luogo soggetto alla sua giurisdizione.

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Sebbene restino aperti numerosi interrogativi, suscitati anche dall’ambigua terminologia adoperata nel diploma di fondazione e che investono l’effettiva sostanza e il contenuto delle concessioni elargite alla chiesa di Monreale, le funzioni dell’abate giustiziere si potevano riassumere nel controllo esercitato sui territori tenuti feudalmente dai baroni, affinchè le obbligazioni reali venissero rispettate.

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Non infrequente in questi casi doveva essere l’invio di procuratori con vasti poteri sui territori della diocesi, in grado di emanare i necessari provvedimenti: il cartulario elenca, tra gli agenti dell’arcivescovo Arnaldo, un Frater Iordanus, attivo tra il 1305 e il 1308, impegnato a risolvere per conto del monastero i contratti enfiteutici e le cause contro i fratelli Camerana per la restituzione di alcuni territori usurpati; e un Frater Nicolaus de Randacio che negli stessi anni, insieme a Frater Parisius de Catania e a Frater Symon, curavano la presa di possesso dei casali Terrusio, Bisacquino, Misilcurti e del castello di Patellaro – illecitamente occupati dai medesimi fratelli Camerana – da parte dell’arcivescovato.

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v. i docc.

 

 

 

 

 

 

 

Caravale ricorda inoltre che all’epoca di Guglielmo II risultavano confermate le competenze svolte nel periodo normanno: «accanto alla giurisdizione penale fissata dall’Assisa 36 di Ruggero II, essi allora avevano acquisito anche quella relativa alle vertenze tra privati e l’altra, concernente questioni feudali»5.

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La corte criminale era presieduta da un ecclesiastico, affiancato da un notaio e da sacerdoti di grado minore, e  giudicava nelle cause civili e penali sentenziando in primo, secondo e terzo appello; le pene previste, oltre a quelle pecuniarie, erano l’esilio e la galera, salvo il diritto di grazia del Papa o del sovrano.

Tarda dovette essere la formazione di una Curia deputata all’amministrazione delle cause, e divisa nelle tre sezioni di affari ecclesiastici, affari civili e corte criminale. Non è possibile, per il periodo studiato, calcolare quale  profitto il monastero fosse in grado di ricavare dai diritti connessi all’esercizio della giustizia. Sicuramente, esercitando il mero e misto imperio, l’arcivescovo riscuoteva anche le imposte della  popolazione residente sui suoi territori, aveva facoltà di imporre il calmiere sui prodotti in commercio e la privativa sui mulini, i macelli, i fondaci e le fiere; è probabile che dovesse anche provvedere alle opere di interesse pubblico.

L’attività giudiziaria degli arcivescovi di Monreale non trova comunque spazio tra i privilegi trascritti all’interno del liber rassacchiano, ma è documentata dal Fondo “Carte Processuali Sciolte”, che testimonia l’esercizio ininterrotto dei poteri civili e giudiziari fino al 1812, anno in cui la Costituzione siciliana aboliva i privilegi feudali.

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Tuttavia, sebbene la prassi di registrazione sia accertata già a partire dalla seconda metà del XIII, le carte del fondo vanno dai primi del XVI al XIX secolo e perduta sembra essere la documentazione prodotta dall’Arcivescovato prima del ‘500.

Per un confronto relativo al territorio italiano, cfr.

A. Padoa Schioppa, Gli atti dell’arcivescovo e della curia arcivescovile di Milano nel sec. XIII. Ottone Visconti, 1262-1295, in Gli atti dell’Arcivescovo e della Curia arcivescovile di Milano nel sec. XIII, a cura di M.F. Baroni, Milano, Università degli Studi 2007, pp. 123-145.

Sicuramente, nel corso del XVI secolo e in linea con la produzione documentaria testimoniata dalle corti di giustizia europee, le modalità di registrazione dei documenti diventarono sempre più regolari: le fasi procedurali documentate appaiono infatti più numerose e ha inizio la diversificazione dei registri secondo la tipologia degli atti. All’origine di tale evoluzione vi fu, probabilmente, la pressione crescente delle giurisdizioni d’appello, che indusse a documentare in modo più completo le singole fasi del processo e a conservare in modo più attento gli atti che a esso si riferivano.

 

 

 

 

1 Cfr. G. Alberigo, La Juridiction. Remarques sur un terme ambigu, in Irénikon, 49 (1976), pp. 167-180.

2 P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, Il Mulino 2000 (Collezione di testi e studi. Storiografia),  in part. le pp. 288-297.

3 cfr. C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di Santa Maria Nuova cit., doc. 69, p. 34.

4 Cfr. B. Pasciuta, Procedura e amministrazione della giustizia nella legislazione federiciana: un approccio esegetico al Liber Augustalis cit.

5 M. Caravale, Le istituzioni del Regno di Sicilia tra l'età normanna e l'età sveva, in Id., La monarchia meridionale: istituzioni e dottrina giuridica dai Normanni ai Borboni, Roma – Bari, Laterza 1998 (Collana di studi e fonti, 6), p. 386.