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Costruzione di un potere:

Monreale nel quadro della politica ecclesiastica normanna

È ormai fatto storiografico affermato che con l’occupazione normanna, avvenuta nel trentennio 1061-1091, la Sicilia medievale – isola policroma naturalmente votata alla mediterraneità – tornava all’Occidente cristiano.

La situazione religiosa immediatamente precedente l’arrivo dei nuovi conquistatori era stata caratterizzata da una intelaiatura confusa e complessa, che prevedeva ancora il controllo di numerosi territori da parte di Bisanzio nella parte orientale dell’isola cui si contrapponeva, nella zona occidentale, la radicata espansione islamica: un equilibrio di forze continuamente turbato da disordini, ma sostanzialmente immutato fino alla comparsa dei cavalieri del Nord1.

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Il rapporto tra etnie e religioni diverse rappresenta l’elemento più evidente di quell’immagine idealizzata del Regno di Sicilia, tramandata da storici e scrittori sino al tardo Ottocento, come si legge ad esempio nell’idilliaca descrizione della Sicilia offerta da Isidoro La Lumia:

La tolleranza durava interissima. (…) Il castello di un nuovo barone, un villaggio degli Arabi, un’antica città greca o romana, una fresca colonia lombarda poteano ritrovarsi in Sicilia nello spazio di poche miglia soltanto: nella stessa città, colla vecchia popolazione nativa, un quartiere di Saraceni e di Ebrei, un altro di Franchi, di Amalfitani o Pisani; e per tutto in quelle genti diverse, con un tipo lor proprio, le tranquille apparenze di concordia reciproca. (…) La campana d’una chiesa novella, il salmeggiare de’monaci d’un nuovo convento sposatasi al grido che da’ minareti alzava il muezzin, chiamando alla preghiera i credenti. Presso il culto latino, modificato secondo le norme della liturgia gallicana, vigevano i riti e le cerimonie de’ Greci; ed insieme le discipline e i precetti della legge mosaica. Le strade, le piazze, i mercati offrivano una singolar mescolanza di costumi e di fogge: il turbante orientale, il bianco mantello degli Arabi, la ferrea maglia de’ cavalieri normanni, il corto saio italiano, la lunga tunica greca; differenza d’inclinazioni, abitudini, feste, esercizi, spettacoli: contrapposti infiniti e continui, che doveano però armonizzare a vicenda,

I. La Lumia, Guglielmo II (detto il Buono). La Sicilia sotto il suo regno, Firenze, Le Monnier 1867, pp. 32-34.

Con toni simili anche Ibn Giubayr, in visita in Sicilia nel 1185, enunciando le bellezze di Palermo scrive:

(…) i musulmani la chiamano al-Madinah e i cristiani Palermo. Essa è la dimora dei musulmani citadini, i quali vi hanno moschee, mercati loro particolari e molti sobborghi; gli altri musulmani li trovi nelle masserie, in ogni villaggio e nelle varie città (…). In quanto concerne il Re di questo popolo, egli è ammirabile per la sua buona condotta e per il suo valersi dell’opera dei musulmani e pel tenere a servizio giovani eunuchi, i quali tutti o in maggior parte mantengono in segreto la loro fede e sono attaccati alla legge dell’Islam. Ripone molta fiducia nei Musulmani e si affida a loro nelle sue faccende e nelle cose più gravi, al segno che il soprintendente della sua cucina è un musulmano,

Ibn Giubayr, Rahlat in La Sicilia nelle fonti arabe del Medioevo, a cura di C. Ruta, Messina, Edi.bi.si 2007, p. 56.

Lo stesso Giubayr riporta un episodio significativo, a suo parere, dell’infinita tolleranza del re normanno, che altri poi non sarebbe che Guglielmo II: «Ci fu pure detto che avvennero nell’isola dei terremoti fortissimi e che questo politeista, preso da paura, andava qua e là guardando per il palazzo e non sentiva se non le voci delle donne e dei paggi che invocano Dio e il suo profeta. Al vedere il Re restavano spesso confusi, ond’egli per calmarli diceva loro: ognuno di voi invochi l’Essere che egli adora e in cui crede»,

Ib., p. 58. 

Nel prosieguo del racconto del geografo arabo si apprende però che al di fuori del palazzo regio la situazione dei musulmani stava peggiorando in seguito alla crescente latinizzazione e cristianizzazione dell’isola.

Al loro arrivo in verità, i Normanni avevano trovato in Sicilia un contesto operativo nel quale legittimarsi per mezzo della monarchia assoluta aveva significato anzitutto superare le forze centrifughe interne, attraverso un’accorta politica di contenimento di quell’ecumene socio-culturale composita, in cui coesistevano gruppi etnici distanti per mentalità, usi, costumi, leggi e religione.

Il favore accordato alle istituzioni di matrice cristiana e il cosidetto programma di Rekatholisierung, soventemente attribuito ad un governo proiettato nel gioco politico innescato dalla contesa tra Papato e Impero2 che, di lì a poco, si sarebbe acutizzata nella lotta per le investiture, avrebbero previsto – secondo un’interpretazione parzialmente superata – l’espansione della Chiesa cattolica a danno di quella ortodossa, mediante una ristrutturazione capillare delle sedi episcopali sul territorio e l’estensione della riforma ecclesiastica, appoggiata dalla Santa Sede con l’alleanza conclusa a Melfi nel 1059.

 

 

 

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Con essa Nicolò II aveva legittimato tutte le conquiste normanne nell’Italia meridionale e affermato a lungo termine i diritti temporali del Papato sui territori occupati, cfr.

S. Fodale, Fondazioni e rifondazioni episcopali da Ruggero I a Guglielmo II, in Chiesa e Società in Sicilia. L’età normanna. Atti del I Convegno Internazionale organizzato dall’arcidiocesi di Catania (25-27 novembre 1992), a cura di G. Zito, Torino, SEI 1995, pp. 51-61:51.

Sulla raffigurazione iconografica del programma politico normanno v.

E. Borsook, Messages in Mosaic. The royal programmes of Norman Sicily, 1130-1187, Oxford, Clarendon Press 1990 (Clarendon studies in the history of art).

Roberto il Guiscardo incoronato Duca di Puglia, Calabria e Sicilia da Papa Niccolò II

In realtà, il favore accordato all’elemento latino si inseriva, più probabilmente, nell’ordine naturale delle cose e non implicava la repressione forzata della componente orientale, le cui strutture organizzative si mantennero ancora a lungo, pur in una forma instabile attribuibile però all’innata tendenza anarchica propria del monachesimo italo-greco. Le recenti ricerche di Vera Von Falkenhausen sulle istituzioni monastiche italo-greche nei secc. XI-XII hanno contribuito in maniera decisiva ad una migliore conoscenza della politica ecclesiastica dei normanni, introducendo notevoli sfumature nella tradizionale visione di un atteggiamento decisamente antigreco della prima generazione normanna.

 

 

 

 

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Si è così dimostrato infondato il presupposto che nell’Italia del Sud si fosse creato un antagonismo tra monachesimo latino e greco: come ha rimarcato la studiosa,

la riorganizzazione diocesana della Calabria, della Sicilia e del Salento sotto l’ubbidienza di Roma non significava che i Normanni avessero volutamente tentato di latinizzare le proprie provincie di cultura greca. Si tratta piuttosto di una politica mirante al controllo dei vertici della chiesa,

V. Von Falkenhausen, L’archimandrato del S. Salvatore in lingua phari di Messina e il monachesimo italo-greco nel regno normanno-svevo (secoli XI-XIII), in Messina. Il ritorno della memoria. Catalogo della mostra (Messina, Palazzo Zanca, 1 marzo – 28 aprile 1994), Palermo, Novecento 1994, pp. 65-79:65 e 67.

In epoca normanna, in Sicilia si contano ancora ben 68 monasteri basiliani: una cifra decisamente considerevole, che smentisce l’ipotesi della decadenza dell’ordine, almeno fino al XIII secolo.

 

Sebbene quindi, la dislocazione dei vescovati, la dimensione delle diocesi e l’autorità conferita ai vescovi rivelino che la strategia ruggeriana sia stata indirizzata ad un controllo diretto del dominio, con la tendenza a delegare il meno possibile ai signori laici, andrebbe comunque esclusa l’ipotesi che i Normanni abbiano voluto elaborare un progetto di politica ecclesiastica chiaro, preciso e concretamente orientato3.

 

 

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È invece plausibile congetturare un processo lento, graduale, maturato nel tempo, che nei fatti poi si tradusse in una nuova geografia ecclesiastica dell’isola organizzata, al termine della conquista, nelle sei diocesi di Messina-Troina, Catania, Siracusa, Agrigento, Mazara e Palermo.

«L’alto numero delle diocesi assicurò, è opportuno ripeterlo, ai signori normanni prima, ai re di Sicilia poi, un capillare controllo del territorio. Nel campo dell’organizzazione monastica la politica ecclesiastica normanna si concretizzò nella sistematica applicazione del modello cluniacense e cassinense di accorpamento dei piccoli monasteri e delle chiese private sparse nelle campagne all’interno dei possessi di una grande abbazia»,

E. Cuozzo, Chiesa e società feudale nel Regno di Sicilia cit., p. 343.

A ciascuna delle nuove fondazioni, tutte in città poste sul mare, il conte Ruggero assegnava un vescovo latino: Gerlando natione Allobrogum ad Agrigento, Stefano Rothomagensem a Mazara, Angerio natione Britonem a Catania, e a Siracusa Ruggero in Provincia Ortum, cfr.

S. Fodale, Fondazioni e rifondazioni episcopali da Ruggero I a Guglielmo II cit., p. 55.

Una coscienza più forte emerge piuttosto dagli orientamenti politici posteriori della monarchia: la successiva ristrutturazione del rapporto tra sedi suffraganee e metropolitiche attraverso la decurtazione o la frantumazione degli antichi distretti ecclesiastici, l’erezione di nuove sedi episcopali nei centri del potere amministrativo, l’introduzione del regime feudale anche in ambito ecclesiastico come strumento di controllo e ordinamento sociale che in Sicilia, rispetto al resto del Mezzogiorno, subiva da quel momento una netta accelerazione4.

Il regime feudale in Sicilia attecchì quasi naturalmente, forse per l’aggancio con una realtà locale precedente nella quale, anche in epoca araba è dato scorgere sia l’utilizzo della proprietà beneficiaria che i regimi di immunità fiscali e giurisdizionali propri dei rapporti feudali.

Sul tema v. G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’Impero Romano ad oggi, Torino, Einaudi 1974 (Saggi, 526), pp. 46-47.

Mario Caravale sottolineava che l’estensione della rete feudale ecclesiastica in Sicilia, iniziata da Ruggero I, potrebbe essere intesa come un’abile operazione di arginamento nei confronti dell’espansione di vaste e potenti signorie laiche, elementi di disturbo in seno alla costruzione monarchica: l’inquadramento religioso sarebbe stato dunque, fin dalle origini, fatto vitale per la sopravvivenza del dominio normanno, cfr.

M. Caravale, La feudalità nella Sicilia Normanna, in Atti del Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia Normanna,(Palermo, 4-8 dicembre 1972), Palermo, Edizioni Sciascia 1973, pp. 21-50:22; v. anche P. Corrao, Mezzogiorno e Sicilia fra Mediterraneo ed Europa (secoli XI-XV), in L’Italia Mediterranea e gli incontri di civiltà, a cura di M. Gallina, Roma-Bari, Laterza 2001, pp. 97-168:103-104.

Furono, queste, manovre strategiche di grande finezza e lungimiranza politica, poiché attraverso il graduale cambiamento della gerarchia ecclesiastica si precludeva definitivamente all’Impero bizantino ogni possibilità di mire espansionistiche sul territorio.

E il fatto che le trasformazioni politiche più profonde – lungi dall’intaccare il sistema economico o modificare il preesistente equilibrio sociale – siano avvenute proprio nella geografia religiosa, ovvero sull’impalcatura esterna della vita siciliana ma dove di fatto stava la chiave di sicurezza del regime, rivela come anche per i Normanni la struttura della Chiesa rappresentasse la garanzia di un ordine fondato attraverso la loro specifica ingerenza. Nei fatti poi, la Corona e la Chiesa traevano un vantaggio reciproco da questo sistema. Il re trovava nei vescovi consilium et auxilium e questa cooperazione gli garantiva una coesione interna al Regno; il clero latino riceveva in cambio un appoggio politico nel proprio lavoro spirituale e amministrativo, supportato da una crescente partecipazione allo sviluppo dell’organizzazione statale.

A partire da questi interventi si verificavano dunque le condizioni per cui anche in ambiente siciliano si attestasse la tipologia, ricorrente nel Medioevo, di “chiesa di frontiera”5 : di una struttura cioè che, attraverso l’insediamento delle gerarchie latine, si assicurava il mantenimento di un’alleanza col Papato i cui termini, in seguito alla fondazione del Regno di Sicilia, si erano profondamente modificati a favore della monarchia.

Mentre infatti, dalla metà del secolo precedente Roma aveva offerto un appoggio incondizionato alla dominazione normanna dell’Italia meridionale, ricevendo in cambio un’assoluta fidelitas, da Ruggero II in poi, con l’unificazione di tutte le signorie normanne nate dalla conquista, la monarchia aveva ricercato la base giuridica del proprio potere non più nell’investitura del pontefice romano, ma nell’unzione sacra come elemento giustificatore e legittimante del potere; la situazione venne ulteriormente stabilizzata dal Concordato di Benevento in seguito al quale, nel Regno di Sicilia, vennero regolamentate le questioni politico-religiose, fissando il numero e le dimensioni delle provincie ecclesiastiche, il numero dei vescovati esenti e limitando la sfera d’azione organizzativa del Papa nelle elezioni vescovili e abbaziali, che vennero esclusivamente controllate dalla Corona, al riparo da ogni influenza esterna.

Sulla questione si vedano E. Cuozzo, Chiesa e società feudale nel Regno di Sicilia cit., p. 334 e 338; N. Kamp, Potere monarchico e chiese locali, in Federico II e la Sicilia,a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo, Sellerio 1998 (L’isola), pp. 65-86:66.

 

 

 

In linea generale tra l’altro, la politica ecclesiastica dei Normanni si inseriva in un vuoto relativo, una deficienza dei grandi Poteri medievali, incapaci ancora di porsi come fatto globale e pervasivo sul suolo meridionale dove, invece, avevano fino a quel momento realizzato rapporti intersoggettivi ed esclusivisti; un’incompiutezza che in ambito politico si era tradotta, per i nuovi sovrani siciliani, in libertà e possibilità di azione autonoma –  in indipendenza – pur se inserita all’interno di un fitto reticolato di relazioni condizionanti: in un particolarismo insomma, che non era lacerazione o rottura di un ordine unitario ma piuttosto, articolazione in una pluralità di ordini conviventi, impegnati tutti ugualmente nella scalata al governo6.

Guglielmo II consegna S. Maria Nuova di Monreale alla Vergine Maria.

Mosaico all'interno del Duomo.

È in questo contesto socio-politico originale – nel quale l’isolanità è forse elemento di differenziazione radicale rispetto al più ampio quadro meridionale, tanto da risultare spesso fuorviante un paragone con le realtà rappresentative della situazione continentale7 – che si collocava la fondazione della chiesa di Santa Maria Nuova di Monreale nella quale Guglielmo II, senza incontrare le opposizioni e gli ostracismi che avevano invece contraddistinto le iniziative dei suoi predecessori, assolveva «il ruolo celebrativo della monarchia normanna, che Ruggero II aveva immaginato per Cefalù»8.

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Collegandosi al progetto del nonno Ruggero, fondatore e promotore del Duomo di Cefalù, il monarca normanno ampliava l’ambizione di realizzare, in modo originale ma seguendo i grandi modelli offerti da Acquisgrana, Venezia, Roma e soprattutto Costantinopoli, un’unione tra chiesa e palazzo reale che materializzasse una concezione della regalità rinnovata all’interno di un Regno ormai pienamente inserito nel contesto occidentale europeo.

Il Duomo di Cefalù

La leggenda legata all’edificazione dell’abbazia, che narra dell’apparizione in sogno a Guglielmo il Buono – stremato da una lunga caccia – della Vergine la quale, rivelandogli che nel luogo stesso ove egli riposava stavano sepolti immensi tesori da impiegare nella costruzione di un’opera di illustre pietà cristiana da tramandare ai posteri, riprende la motivazione leggibile nel diploma di fondazione donato dal re il 15 agosto del 1176  sull’altare della chiesa e nelle conferme successive, dove la decisione di fondare un’istituzione ecclesiastica di quella portata a pochi chilometri da Palermo veniva esclusivamente inquadrata nell’ottica di una profonda fede religiosa che, nella costruzione ecclesiastica, potesse trovare una manifestazione eterna.

I documenti ufficiali coevi però, preferiscono sottolineare il motivo religioso e la devozione a Maria; l’episodio del sogno di Guglielmo e del ritrovamento del tesoro compare in fonti tarde, cfr.

F. Testa, De vita, et rebus gesti Guilelmi II, Siciliae regis, Monregalensis Ecclesii fundatoris libri quattuor, Monregali, Cajetanus M. Bentivenga impressor cameralis 1769, pp. 186-189; e ripresa da M. Lo Monaco Aprile, Le Decime e la Mensa Arcivescovile di Monreale, Palermo, Tipografia Puccio 1901, p. 6.

Le fonti contemporanee, arrivando addirittura a recuperare in chiave cristiana il meraviglioso pagano implicito nel sogno miracoloso, hanno insistito sulla pietas di Guglielmo II, adducendo tra le spiegazioni di questa immensa religiosità anche motivi strettamente personali, quali un’educazione materna volta al cattolicesimo e al rigore morale e la sterilità del sovrano, che rendeva fragile la continuità dinastica. La religiosità del sovrano si affiancava, del resto, alla sua romantica bellezza e gioventù, perfezionate dal suo infelice – perché infecondo – matrimonio con Giovanna d’Inghilterra.

In risposta alla presunta pietà di Guglielmo II, il cui profilo politico è in realtà ancora oggi oggetto di controversie, Vincenzo D’Alessandro ha invece ricordato come l’atteggiamento del sovrano verso la Chiesa sia stato giudicato – oltre che di rottura del legame vassallatico – «rivelatore di una tendenza nuova della concezione monarchica, che richiama l’idea della sovranità francese gelosa delle prerogative regie e insofferente d’ogni soggezione»9 .

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È in effetti difficile credere che un’abbazia così ricca, e con un territorio esteso in buona parte della Sicilia e fino alla Puglia, non fosse piuttosto stata progettata in funzione di un ambizioso disegno culturale e politico che, legittimando ulteriormente la dominazione normanna, fosse parallelamente in grado di frenare – se non controllare – le forze centrifughe interne rappresentate in prima istanza dal potente arcivescovato di Palermo.

 

Così, nelle parole di Paolo Collura, «premeva al sovrano avere alle porte di Palermo un potente feudatario ecclesiastico che gli garantisse le spalle»,

P. Collura, Vicende e problemi del monachesimo benedettino in Sicilia, in Atti dell’Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo, s. IV, 40 (1980-1981) II, pp. 31-64:37.

La fondazione di Monreale a brevissima distanza da Palermo andrebbe dunque intesa anche come una prova di forza con Gualtiero Offamilio, probabilmente motivata dalla volontà di garantire un equilibrio tra i vari consiglieri reali e di rivalutare, all’interno della Curia Regia, la preminenza della Corona nei riguardi di quanti, come appunto il potente Gualtiero, intendevano collocarsi ad un livello alto di rappresentatività e peso politico; e questo, nonostante recentemente sia stato ridimensionato il peso politico dell’arcivescovo palermitano, che nella documentazione superstite non troverebbe la rispondenza di un’adeguata precisazione giuridica, tanto da essere posto insieme a Matteo Ajello – altro esponente della diarchia panormita – sullo stesso piano degli altri membri del consiglio regio.

In quest’ottica non sembrerebbe nemmeno trascurabile il fatto che proprio Gualtiero fosse poi stato costretto ad accettare la scelta del monarca e il successivo taglio di parecchi territori dalla sua diocesi, che venivano invece accorpati a Monreale, accontentandosi di patrocinare la costruzione del duomo10.

Le origini dell’arcidiocesi di Monreale e il valore politico della posizione strategica, alle spalle della capitale del Regno, sarebbero quindi intimamente collegate con la penetrazione normanna in territorio siciliano e ne rappresenterebbero, anzi, l’ultimo dei frutti più significativi11. È cioè probabile che l’erezione di una fortezza abbaziale il cui sguardo dominasse – dall’alto – l’intero territorio circostante, nel pensiero del re normanno divenisse un tassello fondamentale per un potere orientato all’identificazione sacrale.

L’abbazia di Santa Maria Nuova di Monreale offriva infatti a Guglielmo un modello di eminenza sociale in cui si sarebbero intrecciati ricchezza fondiaria, prestigio culturale e controllo giuridico-amministrativo, e che trovava nell’ancoraggio spirituale una proiezione concreta sul variegato tessuto siciliano: per cui l’importanza della sua fondazione come centro di orientamento e controllo di larghi strati della società locale si legava – passando anche attraverso la conduzione agraria del territorio ad essa soggetto – alla doppia funzione di simbolo, nel quale il percorso regio trovava coronamento, e di cardine economico-sociale mediato da un programma di coesione fondiaria e di polarizzazione delle forze produttive attorno al nuovo centro.

Non è azzardato allora riconoscere, nella fondazione della chiesa di Monreale, il rinnovarsi di quella simbiosi fra regno e istituzioni ecclesiastiche che si proponeva come sistema totale nel regno normanno di Sicilia e nel quale si conservava una funzione di raccordo e rielaborazione innovativa di esperienze culturali e politiche che rinviavano ad ascendenze greche e musulmane, oltre che germaniche e latine: una sintesi però, mediata da una dinamica squisitamente occidentale, che intrecciava la linea di condotta regia con gli sviluppi di un’ideologia romano-cattolica di lotta e conquista politica.

 

 

 


1 Cfr. N. Kamp, Vescovi e diocesi dell’Italia meridionale nel passaggio dalla dominazione bizantina allo Stato normanno, in Forme di potere e strutture sociali in Italia nel Medioevo cit., pp. 379-397:379.

2  I rapporti tra Papato e Impero in epoca medievale hanno costituito un polo costante di interesse, soprattutto nell’ambito della storiografia in lingua tedesca. Un efficace quadro d’insieme sull’argomento è offerto dalle recenti voci di G. Arnaldi, Chiesa e Papato e di M. Parisse, Impero, in Dizionario dell’Occidente Medievale. Temi e percorsi, 2 voll., a cura di J. Le Goff, J.C. Schmitt, Torino, Einaudi 2004, rispettivamente alle pp. 213-234 e 532-545.

3  C.D. Fonseca, L’organizzazione ecclesiastica dell’Italia normanna tra XI e XII secolo: i nuovi assetti istituzionali, in Id., Particolarismo istituzionale e organizzazione ecclesiastica del Mezzogiorno Medievale cit., pp. 77-103:93.

4  Cfr. M. Ascheri, Istituzioni medievali, Bologna, Il Mulino 1999 (Strumenti), p. 248. Dal 1091 e per i successivi cento anni infatti, vennero erette circa cinquanta abbazie o priorie latine in Sicilia.

5  P. Delogu, L’evoluzione politica dei normanni d’Italia fra poteri locali e potestà universali, in Atti del Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia Normanna cit., pp. 51-104:93.

6  Cfr. P. Corrao, Gerarchie sociali e di potere nella Sicilia normanna (XI-XII secolo) cit., p. 461.

7 S. Fodale, Fondazioni e rifondazioni episcopali da Ruggero I a Guglielmo II cit., p. 50. Ma v. anche E. Cuozzo, L’unificazione normanna e il regno normanno-svevo,in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso, II, 2, Napoli, Edizioni del Sole 1989, pp. 597-825:675.

8 V. D’Alessandro, Fidelitas normannorum. Note sulla fondazione dello Stato normanno e sui rapporti col papato, in Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo, Palermo 1969, pp. 345-358:353-355.

9 Cfr. S. Tramontana, La Sicilia dall’insediamento normanno al Vespro (1061-1282), in Storia della Sicilia. III. Il Medioevo dalla conquista musulmana al Viceregno, Roma 1998, pp. 95-229:167.  

10 G. Schirò, Monreale. Territorio, popolo e prelati dai normanni ad oggi,Palermo, Augustinus 1983, p. 7.

11 Si rielaborano qui le attente analisi di Giovanni Tabacco relative all’assetto politico nel Mediterraneo medievale, cfr. G. Tabacco, Il Mezzogiorno nel quadro politico europeo e mediterraneo (secc. VI-XIII), in Storia del Mezzogiorno cit., II, 2, Portici 1989, pp. 521-591, in part. p. 559.