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Economia delle campagne e sfruttamento del suolo

L’economia rurale sul territorio controllato dall’arcidiocesi di Monreale riflette, inevitabilmente, i condizionamenti imposti dalla geografia, dal suolo e dalla preesistente organizzazione delle campagne.

Per lo storico dell’agricoltura è la geografia ad aver diviso l’Italia, erigendo una frontiera climatica fra un Nord ben irrigato e un Sud arido e stabilendo fra le due aree differenze non sradicabili di pratica agricola e usanze agrarie.

 

Secondo Stephen Epstein,

i principali  approcci attuali sulla questione meridionale risalgono alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento. Il primo di questi, che potremmo definite geostorico, negava che l’Italia meridionale avesse mai conosciuto un periodo di floridezza: la regione era sempre rimasta un passo indietro rispetto ai suoi vicini. Le ragioni di tale arretratezza erano geografiche, climatiche e talora razziali, tutte immutabili o comunque assai poco sensibili al cambiamento,

S.R. Epstein, Potere e mercati in Sicilia. Secoli XIII-XVI, Torino, Einaudi 1996, p. 4.

Lo storico, ripercorrendo i termini del dibattito sull’arretratezza del Sud Italia, ha commentato le numerose ipotesi formulate nel corso del Novecento: quella di Alfred Doren, che pensando ad uno sviluppo economico di lungo periodo basato su città politicamente e istituzionalmente indipendenti, ha sostenuto che la ragione principale della stagnazione economica del Mezzogiorno fosse la mancanza di città-stato indipendenti; quella di Benedetto Croce, che ha identificato nei Vespri «il principio di molte sciagure e di nessuna grandezza»; quella di Georges Yver, che vide nelle ragioni del sottosviluppo meridionale il predominio del commercio estero e dei mercanti stranieri sull’economia del Mezzogiorno, poi ripresa da Gino Luzzatto.

Il tema è stato impostato con un approccio dualistico, attento ai meccanismi di scambio, che avrebbero causato l’emergere di aree colonizzate e colonizzatrici, anche da Philip Jones e David Abulafia: le loro analisi sono state poi estese anche a periodi successivi da Maurice Aymard e Henri Bresc che, più chiaramente dei loro predecessori, hanno sollevato questioni riguardanti i rapporti tra le trasformazioni politiche, istituzionali ed economiche di lungo periodo che sono centrali nella storiografia del Mezzogiorno.

Per questa lunga e dettagliata ricognizione sulle principali teorie storiografiche cfr.

S.R. Epstein, Op. Cit., pp. 5-18

L’assunto può essere valido anche a livello regionale, sebbene tra gli storici prevalga la tendenza a scrivere della Sicilia in termini di entità territoriale indifferenziata, o a liquidarne la zona orientale come eccezione non significativa al sistema economico dominante nella parte occidentale dell’isola.

A ben guardare, la stessa tripartizione medievale dell’isola in valli indicava invece precise subregioni sociali ed economiche, contraddistinte da diverse strutture urbane e regimi di produzione agricola. Dopo lo sbarco degli Altavilla e la caduta dell’ultima resistenza musulmana, la Sicilia era rimasta economicamente divisa a metà.

Il Val Demone, che risentiva ancora dell’influenza greca, era caratterizzato dalla presenza di una forte proprietà di piccola e media estensione, un importante settore pastorale e una mano d’opera schiavile.

Questa grande subregione siciliana è tra quelle in cui nel corso del tempo si sono verificate numerose e contrastanti variazioni demografiche, sia nel rapporto con gli altri spazi isolani, sia al suo interno nel rapporto tra la grande città e il suo distretto, o tra le diverse sue articolazioni. È in qualche modo una regione-simbolo, indicata ora come l’alternativa alla Sicilia del grano, ora come la dimostrazione della crisi secentesca, della ruralizzazione e della deindustrializzazione. Area rifugio nel medioevo, prevalentemente montana, priva di terre granarie, all’inizio dell’età moderna è però la più densamente popolata della Sicilia.

 

A sud-ovest, e in particolare nel Val di Mazara – zona dove è possibile individuare quella tendenza, perversamente seguita dal consolidamento al tramonto della dominazione normanna, a creare spazi all’agricoltura attraverso un razionale insediamento umano – permaneva una cultura agricola a carattere musulmano, con un’economia orientata quasi esclusivamente alla cerealicoltura.

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Se l’ingresso di Santa Maria Nuova nella storia economica isolana si configurava come fatto determinante per il ripopolamento delle terre e il loro recupero alla coltura, il controllo del lavoro agrario da parte della grande signoria ecclesiastica rimaneva, nei fatti, piuttosto blando: la documentazione a disposizione non mostra infatti un’attenzione particolare a cicli produttivi, tecniche e rotazione delle coltivazioni, che restavano dunque affidati all’iniziativa dei singoli coltivatori.

L’agricoltura contadina sul territorio dominato dalla chiesa di Santa Maria Nuova, in cui ogni singola parcella di terreno tendeva probabilmente a realizzare l’assoluta autosufficienza, consisteva sostanzialmente nella triade formata da grano, orzo e vino, integrati da piccole attività di frutti e orticoltura sviluppate in piccoli recinti ubicati in prossimità dei centri abitati.

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Nel rollo del 1182 questi recinti, segnalati dal toponimo area (aia), sono:

È altresì probabile che anche nel iardinus Marandi, tra prime le donazioni elargite da Guglielmo II alla chiesa, si praticasse qualche piccola forma di coltivazione.

documento I.1

documento I.4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nelle divise, la struttura si ripeteva sempre uguale: preponderanza assoluta di terreno arabile nelle aree pianeggianti e di vigne in collina.

Nella maggior parte delle località la coltivazione dominante era quella cerealicola – ben ventiquattro divise sono dette “a semenza e cereali” – ma il cartulario non consente di stabilire il rendimento complessivo delle campagne monrealesi: è comunque probabile che le rese fossero caratterizzate da un’estrema variabilità, come attestano anche le scarse serie documentarie offerte da altri grandi enti ecclesiastici meridionali.

 

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Tabella Salme

Bibliografia sulla Storia Agraria

 

 

 

Per Monreale, le uniche indicazioni rintracciabili sono quelle relative all’estensione in salme coltivabili delle divise, ma le notevoli perplessità sulla loro reale estensione rende anche queste informazioni poco indicative.

È comunque probabile che la produttività delle campagne dominate dall’arcidiocesi fosse di scarso rilievo, non andando al di là – per il frumento – di una resa media di cinque volte le sementi:

 

e ciò soprattutto perché le scelte di politica economica della classe signorile, chiaramente orientate in direzione di un indiscriminato allargamento dell’area cerealicola a coltura unica e al più basso impiego di manodopera, non erano tali da favorire una organica opera di dissodamento, come conferma d’altronde la dinamica degli insediamenti,

S. Tramontana, Il mezzogiorno medievale cit., p. 41.

Per spiegare la bassa produttività e i raccolti incerti sono state proposte molte ragioni, ma non si può dubitare che quella principale fosse una radicale debolezza nel sistema agricolo stesso:

l’inadeguata fertilizzazione del suolo, derivante da una generale incapacità di integrare agricoltura e allevamento del bestiame, e di produrre così sufficienti quantità di foraggio, bestiame, e concime naturale. A questo difetto si possono far risalire molti tratti caratteristici dell’agricoltura italiana medievale,

P. Jones, Per la storia agraria cit., p. 220.

 

L’esistenza di monticuli fovearum e machazen – magazzini – dove veniva conservato il frumento e le indicazioni toponomastiche attestanti la presenza di numerosi mulini, suggerirebbero tuttavia un’attività produttiva abbastanza sviluppata.

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Mulino arabo nei pressi del Comune di Partinico

Solo per citare quelli con denominazione specifica:

Per la struttura muraria di queste costruzioni, formata dalla successione architettonica di acquedotto, botte verticale, casa del mulino e garaffo, cfr.

H. Bresc, Mulini ad acqua in Sicilia. I mulini, i paratori, le cartiere e altre applicazioni,Palermo, L’Epos 2001 (Talismani, 5).

 

Non è questa la sede per approfondire gli aspetti economici legati al monopolio dei mulini, ma va comunque sottolineato che per la loro attività, indissolubilmente legata ai corsi d’acqua, tali strutture si situavano sempre nei pressi di sorgenti o fiumi1.

 

Macchina ad ingranaggi per il sollevamento dell'acqua

All’epoca di Ibn Hawqal il territorio circostante Palermo era noto per l’abbondanza delle acque,

che scorrono da levante a ponente, con forza da volgere ciascuna due macine; onde son piantati parecchi mulini su que’ rivi. Dalla sorgente allo sbocco in mare son essi fiancheggiati di vasti terreni paludosi, i quali, dove producono canna persiana, dove fanno delli stagni, dove dan luogo a buone aie di zucche,

dal Kitâb di Ibn Hawqal, in La Sicilia nelle geografie arabe del Medioevo, a cura di C. Ruta, Messina, Edi.bi.si 2007 (Culture e storie, 2), p. 30.

Anche nel Kitâb di Al-Muqaddasî si legge di una Palermo circondata da sorgenti d’acqua e doccionati, dove i mulini «sono piantati in mezzo alla città» mentre

fuor del lato meridionale del borgo scorre il fiume Abbâs, fiume perenne, sul quale stanno tanti molini da bastare appieno al bisogno della città,

dal Kitâb di Al-Muqaddasî, in La Sicilia nelle geografie arabe del Medioevo cit., pp. 34 e 45.

La toponomastica del territorio esaminato è in effetti ricchissima di termini relativi all’idrografia anche se per alcuni – ad esempio il classico fons – l’ambiguità del significato potrebbe spesso dare adito ad interpretazioni inesatte sull’effettiva portata delle acque e il loro eventuale utilizzo a fini produttivi.

Lista dei toponimi

 

 

 

Particolarmente interessante risulta però la presenza di molteplici aqueducti, generalmente condotti rudimentali aperti in terracotta o in terra battuta utilizzati per convogliare le acque irrigue, nonché di diverse cisterne e pozzi, spesso comuni a più casali.

Nelle divise di Monreale:

Da Ibn Hawqal si apprende che in epoca musulmana

la popolazione si disseta con l’acqua di pozzi posti all’interno delle loro case,

Ibn Hawqal in R. La Duca, Storia di Palermo. II,  Dal tardo-antico all’Islam, Palermo 2002, p. 240.

Per questi elementi del paesaggio agricolo, v.

H. Bercher, A.  Courteaux, J. Monton, Une abbaye latine dans la société musulmane : Monreale au XIIe siècle, in Annales E.S.C., 34 (1979), pp. 525-555.

 

Nella zona esaminata l’utilizzazione di pozzi per l’approvvigionamento idropotabile e per usi irrigui trovava infatti condizioni favorevoli, date dalla presenza di una estesa falda acquifera superficiale, facilmente raggiungibile a pochi metri di profondità, e dalla natura calcarenitica del terreno formato da strati teneri che, pur favorendo le operazioni di scavo, presentava allo stesso tempo una consistenza tale da non richiedere alcuna opera di rivestimento delle pareti2.

Lo stesso Ibn Hawqal, nel descrivere il sistema idrico di Palermo, sostenne che

gli abitanti della città vecchia, al par che quelli della hâlisah e del rimanente de’ quartieri, dissetansi con l’acqua de’ pozzi delle proprie case; la quale, leggiera o grave che sia, lor piace più che molte acque dolci che scorrono in que’ luoghi,

La Sicilia nelle geografie arabe del Medioevo cit., p. 31.

 

 

 

Qualche difficoltà incontra la determinazione di quanta parte del territorio fosse tenuta a pascolo e quali fossero le reali estensioni dei boschi o delle paludi frequentemente incontrati nel rollo del 1182.

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Con la bulla aurea del 1176, l’abbazia di Santa Maria Nuova aveva ricevuto, tra gli altri, il diritto di fare e trasportare legna liberamente in ogni foresta della Sicilia e il diritto di libero pascolo sulle terre del demanio reale, ma – come ha giustamente sottolineato Pietro Corrao – «rimane il dubbio se si tratti di diritti effettivamente esercitati e non di semplici ripetizioni di formule» standardizzate, lontane da un riferimento a realtà effettive 3.

 

 

Sicuramente sul dominato monrealese insistevano diverse aree boschive, segnalate dal termine silva, da indicazioni topografiche relative alla qualità degli alberi – ad esempio il campus Fraxineti nella divisa Bactallarii – o più semplicemente descritte in relazione al territorio di appartenenza, come nel caso del casale Hendulcini e di Rahalgidit che avevano «portionem suam de silva».

Nel documento si incontrano inoltre diverse silvae anonime, mentre vengono nominati mediante antroponimo due boschi: la silva Benedicken nella divisa La Camucka e la silva Filii Dikcen nella divisa casalis Benbark; altri boschi dovevano esistere sicuramente a Godrano, Cefalà e in tutta la zona della Rocca Busambra.

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Gli orti e i frutteti rappresentano quel paesaggio “utile e bello” del Mediterraneo medievale, cui la monarchia normanna aveva aggiunto – in continuità funzionale ed estetica –  numerosi parchi attrezzati con padiglioni e laghetti attraverso i quali lo sfruttamento del paesaggio abbracciava una visione edonistica della natura, modellata sul culto del paradiso coranico.

In questo senso, richiamandosi alla tipologia dell’agdal, termine di origine berbera la cui etimologia rimanda ad uno spazio verde privato, recintato e dotato di un bacino d’acqua, i parchi normanni si configuravano come grandi distese verdi recintate da mura, in parte occupati dal bosco e ricchi di acque, animali, alberi da frutti e fiori.

Un’esempio in tal senso è il Parcus citato nella descrizione della Magna divisa Iati fornita dal rollo del 1182, nome medievale del comune di Altofonte.

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L’accertata esistenza di zone silvestri, unita ai numerosi nomi relativi a campi e prati, lasciano intuire la stretta compenetrazione sulla giurisdizione dell’arcidiocesi di aree coltivate o abitate e aree incolte probabilmente sfruttate per il pascolo: in base alle notizie fornite dal rollo Franco D’Angelo stima che nel territorio di Monreale almeno 1.300 fossero le salme, evidentemente poco produttive, destinate al pascolo4.

 

 

Questi terreni, verosimilmente soggetti a uso comune, erano spesso stagionali e di qualità scadente: è quindi ipotizzabile che vi si allevassero animali di piccola taglia e che l’allevamento del bestiame su larga scala avesse invece assunto la forma della transumanza.

In ogni caso, oltre alla presenza di un casale esclusivamente adibito alla pastorizia – il casale Pastoris –  in ben sette divise si fa espressa menzione del pascolo come frazione della superficie seminata:

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Montoni, vacche, capre e maiali venivano spesso custoditi in apposite recinzioni cintate, dette mandrae: nel casale Abdella la mandra Ases, nella divisa Bufurere la mandra Beniabarum, a Malvito le mandrae Ebenlarmel, Guillelmi, Siculi, nelle terre dell’ospedale di Sant’Agnese la mandra Marcahezeyet e la mandra Petrae Iacob.

Nonostante la presenza di suoli sabbiosi o pietrosi difficili da lavorare, interessanti appaiono le tracce relative a colture alternative legate ad una sofisticata rete d’irrigazione, introdotte dagli arabi e sicuramente mantenute sul territorio per tutta l’epoca normanna.

Le attestazioni fornite dalla toponomastica del rollo sono molteplici. Solo per citare qualche esempio: il casale Balat (casale della pietra), le hagar (pietre), i frequenti balata, lapis e lapides (roccie, pietre).

Fra le innovazioni del Medioevo si possono distinguere, innanzitutto, certe colture sconosciute o poco sviluppate nell’Italia antica. Di quelle più nuove le più importanti, a parte alcuni cereali (meliga, grano saraceno), erano le cosìdette monsoon crops (riso, canna da zucchero, cotone), la maggior parte delle quali vennero introdotte per la prima volta dai greci o arabi nell’Italia meridionale e nella Sicilia. Di quelle coltivate per nuovi scopi, o su nuova scala, le più notevoli erano le piante tintorie – (…) che si diffusero in sempre più numerose regioni dall’inizio del secolo XIII,

P. Jones, Per la storia agraria cit., pp. 214-215.

 

Queste monsoon crops si concentravano per lo più sui fertili terreni alluvionali dei fondovalle e alla base dei monti, dove non infrequentemente si formavano stagni e paludi sfruttati per piantagioni particolari: così, ad esempio, nella divisa Ducki esisteva una «menaka ubi mollificatur lini».

 

Il termine sembra essere passato, nella forma abbreviata di nache, alle grandi pozze di acque fiumane, cfr.

V. Di Giovanni, I casali esistenti nel secolo XII nel territorio della chiesa di Monreale cit., p. 446.

Altro riferimento alla coltivazione del lino nel documento è un locum lini esistente nella divisa Rahalamrun.

Il lino era forse la fibra tessile più comune nell’Europa preindustriale. C’è chi ha sostenuto che fosse possibile coltivare il lino soltanto in climi più temperati e continentali, come quello della Lombardia, e non nel Meridione, ma basta dare un’occhiata alle liste della biancheria personale e da letto in inventari siciliani per capire che le cose stanno diversamente. […] Sotto i normanni il lino risulta ben attestato in tutta la Sicilia, ma alla fine del Duecento sembra più comune nella parte orientale dell’isola,

S.R. Epstein, Potere e mercati cit., p. 185.

A Rahalgidit era segnalata la presenza di uno stagno della canapa (vadum Cannabi); è anche probabile che il toponimo vallonis Hanneuye, ubicato nella circoscrizione di La Camucka, indicasse una località dove si coltivava l’hennè.

Alla presenza di acque abbondanti erano legate le piantagioni di coloranti – a Summino è attestata una cultura nilig –   termine che dovrebbe identificare l’indigo, una pianta tintoria diffusa in numerose regioni italiane dall’inizio del XIII secolo, dalla quale si può estrarre il colore blu - e, più in generale, le attività connesse ai panni: specializzata nel settore doveva essere la divisa Rande, dove i toponimi fons pannorum e flumen fullonis lasciano chiaramente intuire l’esistenza di una gualchiera.

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Molti dubbi invece permangono su alcune conduzioni agricole di difficile identificazione, come la cultura helcarcubie praticata a Summino, a Malvito la cultura spelti, la cultura teblengi, la cultura narcisia e le saf-saf, che crescevano nella zona di Mirto, da alcuni identificate con la pianta del sapone.

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Sicuramente introdotta dagli arabi fu inoltre la produzione della canna da zucchero: il riferimento, nel diploma di fondazione, ad un «molendinum unum ad molendas cannas mellis, quod Sarracenice dicitur masara» non smentisce le indicazioni relative alla coltivazione della cannamele fornite da Ugo Falcando nella prefazione della sua Epistola ad Petrum, che fu attività particolarmente redditizia nonostante assumesse una rilevanza quasi industriale soltanto nel XIV secolo.

Vai al documento I.1

 

Lo zuccherificio, come ha rilevato Carmelo Trasselli, fu infatti la prima industria siciliana di trasformazione il cui prodotto era richiestissimo in tutta Europa; e vera industria, in quanto esigeva l’impiego di rilevanti capitali, numerosa forza lavoro, macchine, energie e soprattutto un’organizzazione e direzione tecnica di tutti i fattori della produzione,

M. Signorello, Canna da zucchero e trappeti a Marsala, in Mediterranea. Ricerche storiche, 3 (2006), pp. 223-250.

Sui trappeti e sulla coltivazione della canna da zucchero in Sicilia v. anche il fondamentale saggio di Trasselli:

C. Trasselli, Storia dello zucchero siciliano, Caltanissetta-Roma 1982 (Storia economica di Sicilia).

Tuttavia sembra che alla fine del Quattrocento, lo zucchero siciliano abbia perduto il proprio mercato straniero, a causa della concorrenza da parte di prodotti rivali, alcuni coltivati nell’Europa stessa, altri in luoghi di recente scoperta,

P. Jones, Per la storia agraria cit., p. 225.

Durante tutto il Medioevo, la forma di miglioria più comunemente attestata consisteva nel piantare i terreni a vigna, pianta tipica dell’agricoltura meridionale e oggetto di attente cure da parte dei proprietari fondiari e dei coltivatori già prima dell’XI secolo.

 

 

Le prove della presenza in Sicilia della pianta prima del Mille sono numerose, e non sembra che la lunga dominazione araba abbia determinato l’annientamento della pratica viticola: i divieti posti dal Corano al consumo del vino ne limitarono certo la diffusione, ma il gradimento che incontrava sia l’uva fresca che quella passa dovette in qualche misura garantire alla vite una continuità di presenza5.

Le notizie più frequenti provengono proprio dagli archivi monastici e dagli inventari di beni di chiese e canoniche: un dato quantitativo che dà conto del nesso profondo esistente tra religione cristiana e diffusione viticola non solo per le implicazioni teologico-simboliche del vino6, ma anche perché la Chiesa – come ha rilevato il Dion – ha «servito la viticoltura tanto conservando e trasmettendo i metodi di coltivazione ereditati dall’antichità romana, quanto aumentandone il prestigio»7.

I riferimenti alla coltivazione della vite nell’area del monrealese sono desumibili da alcuni documenti, distribuiti in un arco cronologico molto esteso, che va dall’anno della fondazione, quando Guglielmo II donava alla chiesa di Santa Maria Nuova – tra gli altri – anche i vigneti pertinenti alla chiesa di San Silvestro, la vigna del notaio Simone e quella di Silvestro conte di Marsico, al 1374, data in cui l’arcivescovo Guglielmo permutava con Giovanni Cannata di Alcamo una casa solerata e un piccolo vigneto, siti a Corleone in contrada Maruni, ricevendo in cambio una casa piana ubicata ad Alcamo.

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documento I.1 (Monreale, 15 agosto 1176)

La donazione viene confermata da Lucio III:

e da Clemente III

documento IV.25

 

 

 

 

 

 

In proposito va sottolineato che la vigna e la sua produzione, naturalmente inseriti nel più vasto panorama dei beni ecclesiastici, erano considerati semplicemente come uno dei tanti tipi di bona che componevano la proprietà della Chiesa e godevano pertanto, dei loro comuni privilegi tra cui, in prima istanza, il divieto di cessione.

Nella pratica tuttavia, l’alienazione era talvolta consentita, permettendo così al vescovo di cedere o permutare terre e vigne, purché poste in località disagevoli e scarsamente produttive8.

 

 

Tra XI e XIV secolo si collocano numerose indicazioni di vigne e vigneti assegnate all’arcivescovato: la concessione, nel giugno del 1182, di una vigna precedentemente appartenuta al maestro pittore Pietro, nei pressi della sorgente del Gabriele e quella, effettuata nel marzo del 1184, della chiesa di Santa Maria Maddalena di Corleone che viene destinata a Monreale insieme alle terre, i mulini e i vigneti di sua pertinenza.

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documento I.5 (Palermo, giugno 1182, XV ind.)
documento I.10 (Palermo, marzo 1184, II ind.)

 

 

 

Se in questi casi si tratta di piccoli fondi ubicati all’interno delle città e posti nei pressi di abitazioni, i dati ricavabili dal rollo del 1182 indicano invece chiaramente aree extra-urbane interamente dedicate  alla coltura della vite:

  • a Bufurere, tra Piana degli Albanesi e Corleone, è attestata una vineam Benhamut;

  • nella divisa Lachad, nei pressi di Malvello, la vigna dell’Arabo (vineam arab);

  • in contrada Celso la vigna del notaio Leone;

  • nel territorio di Calatrasi una vigna nei pressi di Cautalì (vineam Kalatahali) e un vigneto circondato da un fossato appartenente allo scrivano Raymon («usque ad caput fossati vinee que fuit Raymonis kerram»).

Un vigneto privo di denominazione si trova nella divisa Haiarzeneti, mentre la divisa Cumayt, oggi feudo Montaperto, interamente denominata in onore al vino, fu probabilmente area privilegiata per questa coltura.

La grande espansione delle vigne tra pieno e tardo medioevo può essere interpretata anche come risposta alla crescita demografica ed urbana: il fatto che si piantassero vigneti nei dintorni delle città, dei villaggi e dei maggiori centri abitati, indipendentemente dal fatto che tali zone fossero adatte o meno alla coltura viticola, conferma il carattere antropico di tale diffusione e di come a guidarla fossero soprattutto le esigenze quantitative, non quelle qualitative.

Mentre quindi le vigne a sostegno interfilare stretto continuavano a dominare le campagne suburbane, in buona parte del territorio monrealese veniva introdotto un sistema di coltivazione promiscua, che negli ampi spazi tra un filare e l’altro consentiva la semina di cereali e leguminose e affidava agli alberi la funzione di supporto delle viti.

La ripresa delle attività mercantili e artigianali e il connesso incremento delle popolazioni urbane diedero luogo nella Sicilia del Trecento, ad un forte sviluppo della pratica viticola.

Benché non venisse meno il contributo degli enti ecclesiastici, i protagonisti della nuova espansione furono i ceti cittadini di formazione più recente, detentori di capitali da investire nella terra e interessati alla produzione vinicola come segno tangibile di ascesa sociale9.

Non è quindi un caso che l’abbazia di Monreale sia spesso menzionata come concessionaria di vigne: tra i documenti non trascritti nel cartulario, figurano ad esempio la concessione a pastinato da parte dell’arcivescovo Benvenuto a Omodeo Latineri e Tommaso d’Armenia, abitanti del casale di Iato, di alcune vigne e giardini, dietro il versamento annuo della decima10 e quella, effettuata dell’arcivescovo Giovanni, di alcune vigne in territorio di Corleone assegnate per dieci anni a Ventura di Ferentino e Pietro Nigro, per le quali riceveva in cambio cinquanta tarì aurei l’anno11.

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Un esempio fornito dal cartulario è invece il documento con cui l’arcivescovo Arnaldo concedeva a Gioacchino de Cappillera, cittadino di Messina, due vigne site in territorio messinese, ricevendo un censo annuo di 55 tarì.

documento IV.14

 

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Il liber non fornisce ulteriori indicazioni sulla coltura della vite nei territori appartenuti all’arcidiocesi di Monreale in anni posteriori la seconda metà del XIV secolo.

La testimonianza di Michele da Piazza, che denunziava le devastazioni di vigneti ad opera delle bande baronali del Trecento, delinea comunque una mappa della viticoltura in cui sono comprese quasi tutte le terre abitate delle coste e alcune più interne lasciando intuire la persistenza e l’utilizzo della coltivazione anche durante l’epoca tardo-medievale11 .

 

 


1 Cfr. S. Tramontana, Mulini ad acqua nella Sicilia normanna, in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, 2 voll., Roma, Istituto storico Italiano per il Medioevo 1988, II, pp. 811-824; H. Bresc, Moulins et paroirs: l’équipement hydraulique de la Sicile (XIIe – XIIIe siècles), in Oriente e Occidente fra Medioevo ed Età Moderna. Studi in onore di Geo Pistarino, vol. I, a cura di L. Balletto, GeNuova 1997, pp. 143-163.

2  Cfr. P. Todaro, Utilizzazioni del sottosuolo di Palermo in età medievale , in Palermo Medievale cit., pp. 109-128:117; sull’argomento v. anche S. Tramontana, Il mito della terra assetata. Per una storia delle mutazioni climatiche e della distribuzione idrica nella Sicilia normanna, in Cavalieri alla conquista del Sud. Studi sull’Italia normanna in memoria di Léon-Robert Ménager, a cura di E. Cuozzo e J. M. Martin, Roma-Bari, Laterza 1998, pp. 157-168.

3 P. Corrao, Per una storia del bosco e dell’incolto in Sicilia tra XI e XIII secolo, in Il bosco nel  Medioevo, a cura di B. Andreolli, M. Montanari, Bologna, Clueb 1988, pp. 349-368:353. Sulle risorse boschive siciliane v. anche H. Bresc,Disfari et perdiri li fructi et li aglandi”. Economia e risorse boschive nella Sicilia medievale (XIII-XV secolo), in Quaderni Storici, 54 (1983), pp. 941-969.

4 Cfr. F. D’Angelo, Terra e uomini della Sicilia medievale (secoli XI-XIII), in Quaderni Medievali, 6 (1978), pp. 51-94:62-63.

5 Cfr. A. Cortonesi, La coltivazione della vite nel Medioevo, in La civiltà del vino cit., pp. 3-14:7.

6Per le quali v. F. Dell’Oro, Il vino nella liturgia latina del Medioevo, in La civiltà del vino cit., pp. 421-456.

7 R. Dion, Histoire de la vigne et du vin en France des origines au XIXe siècle, Paris 1959, rist. anast., Paris, Flammarion 1977, p. 188. É nota l’importanza del vino nella vita monastica, nonostante i numerosi divieti e prescrizioni: sull’argomento v. G. Archetti, De mensura potus. Il vino dei monaci nel Medioevo, in La civiltà del vino cit., pp. 205-326.

8 Cfr. R. Bellini, Il vino nelle leggi della Chiesa, in La civiltà del vino cit., pp 365-421:380.

9 Cfr. A. Cortonesi, La coltivazione della vite cit., p. 6.

10 Documento dato a Monreale nel settembre 1258, II ind. Cfr. C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di S. Maria la Nuova cit., doc. 101, p. 47.

11 Monreale 1281, 30 ottobre, ind. X: Giovanni arcivescovo di Monreale concede a Ventura di Ferentino e Pietro Nigro abitanti di Corleone per 10 anni, alcune case e vigne poste nel territorio di Corleone che appartennero ad Arnone monaco di Monreale, alla quale pervennero, per l’annua prestazione di 50 tarì d’oro, cfr. C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di S. Maria la Nuova cit., doc. 129, p. 59. L’anno successivo lo stesso arcivescovo Giovanni concede ad Obertino di Camerana, cittadino di Corleone, per 29 anni e dietro prestazione annua di 15 tarì d’oro, una masseria e una vigna esistenti a Corleone, nel territorio del casale di Malvello, un tempo appartenenti a Vinciguerra milite di Palermo: documento dato a Monreale l’8 maggio del 1282 (ind. X), C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di S. Maria la Nuova cit., doc. 131, p. 60.

12Cfr. S. Tramontana, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, Messina-Firenze, D’Anna 1963, p. 232.