Strategie di gestione del patrimonio: l’enfiteusi sulle terre di Santa Maria Nuova
L’analisi delle carte relative alle vertenze patrimoniali, oltre a delineare un quadro in cui la grande diocesi di Monreale intratteneva relazioni e contatti a più livelli della scala sociale – dagli esponenti della borghesia e dell’aristocrazia siciliana ai contadini che coltivavano le sue terre – è indicativa delle difficoltà implicite nell’amministrazione di un territorio così esteso e socialmente complesso.
Numerosi studi hanno rilevato, a partire dal XIII secolo, le costanti preoccupazioni finanziarie dei grandi enti ecclesiastici, causate da un’organizzazione territoriale sempre più frammentata, da rendite poco elastiche e comunque in natura e in servizi piuttosto che in moneta, dalla strutturale incapacità a sostenere consumi di lusso e, più in generale, ad adeguarsi alla forte accelerazione del dinamismo economico, che accresceva la potenza dei capitali creditizi urbani1. L’equilibrio delle forze nella società rurale e l’effettivo controllo della proprietà stavano evidentemente spostandosi: come ha abilmente sintetizzato Philip Jones,
Al di là di queste acquisizioni incontestabili e valide per tutta la penisola italiana, l’ostacolo maggiore per la sopravvivenza del dominio monrealese fu tuttavia rappresentato dalla scomparsa del villanaggio che, pur ben radicato nella società siciliana di età normanno-sveva, si esaurì quasi del tutto nel corso della seconda metà del Duecento senza che probabilmente intervenissero specifici atti di emancipazione collettiva.
Arginare il fenomeno, che aveva implicato il drammatico spopolamento dei casali e l’abbandono delle aree agricole più produttive della diocesi, significò quindi anche per Santa Maria Nuova riformulare i rapporti agrari esistenti sul proprio territorio, introducendo nuove forme di gestione economica basate per lo più su contratti enfiteutici ventinovennali e su fitti a breve termine.
La pratica enfiteutica, diffusasi dalla prima metà del XIII secolo, salvava – almeno in apparenza – il diritto eminente del concedente, aggirando quel divieto di alienazione che era stato fondamento della legislazione ecclesiastica e a cui si era sempre appellata la diplomatica normanna nella redazione degli atti di concessione.
È indubbio che il regime delle concessioni a lungo o lunghissimo termine, così gradito dai curatori del patrimonio ecclesiastico fondiario, non rispecchiasse le direttive in tema di gestione di immobili che a più riprese erano state tracciate dal diritto canonico. Eppure, pur essendo praticata a tutti i livelli della grande proprietà fondiaria, gli ambiti territoriali che permettono maggiormante di seguire il trend dell’enfiteusi sono senza dubbio legati ai patrimoni degli enti religiosi: sembra anzi che debba essere attribuito proprio a questi ultimi, forse perché colpiti più in larga misura dalla mancanza di manodopera che la fine dei rapporti di villanaggio e il progressivo spopolamento delle campagne avevano provocato, l’aver messo in atto su larga scala cessioni di terra a titolo di censo e di enfiteusi ventinovennale o perpetua2. L’enfiteusi assicurava al beneficiario il godimento del fondo pieno e senza limiti di tempo, mentre al concessionario restava un buon margine di profitto – un canone pecuniario basso ma costante e sicuro nel tempo – senza assumersi gli oneri e i fastidi che la conduzione diretta necessariamente comportava. In realtà quindi, più che un provvidemento preso in circostanze critiche eccezionali, l’enfiteusi finiva col diventare una prassi generalizzata in cui si concretizzava quella spinta alla radicale semplificazione e alla sostanziale eliminazione della duplicità di dominii – spirituale e temporale – che era stata la caratteristica del primo secolo del governo monrealese: il che, tradotto nella pratica, significava conservare e consolidare un pieno diritto sulle proprietà immobili traendone quei redditi in passato non pienamente goduti.
Nonostante le interdizioni citate, l’addensamento in pochi anni di atti eterogenei di concessioni enfiteutiche conferma la politica economica condotta dalla chiesa Santa Maria Nuova in direzione delle censuazioni.
Se i contratti a lungo termine, oltre a rispondere alle esigenze di una coltivazione intensiva su unità produttive non estese ma per le quali evidentemente era venuta a mancare la mano d’opera, permettevano il godimento di fondi non ancora fruttiferi – per natura o incuria – sui quali era necessario dispiegare attività di coltivazione particolarmente impegnative come bonifica, disboscamento, dissodamento e riorganizzazione produttiva3, l’esame dei contratti stipulati con i personaggi citati, caratterizzati nel complesso da una scrittura molto semplice, non predispongono in realtà per i casali e per le tenute ad essi pertinenti un particolare regime di coltivazione né tantomeno richiedono al conduttore specifiche attività di trasformazione: l’attenzione dei contraenti sembra piuttosto essere rivolta alla sicura riscossione del canone e alla totale percezione di redditi e proventi di ciascun cespite, come indicherebbe il privilegiamento delle clausole penali per l’inadempiuto pagamento del canone. Non è poi da trascurare il ruolo emergente che la borghesia cittadina, in particolare monrealese, assunse nella contrattazione enfiteutica delle proprietà della grande abbazia, affiancando il nutrito gruppo di nobiles e milites, giudici e notai, già impegnati nello sfruttamento economico della terra a fini commerciali. Ciò che questi contratti registrano sembra essere qualcosa di più di un mutamento nel sistema amministrativo: è la formazione di una nuova classe di possidenti i quali, per mezzo di locazioni o contratti, stavano costruendo dei patrimoni terrieri e sfruttando le possibilità dello sviluppo agricolo sul territorio della diocesi.
Lucia Sorrenti ha sostenuto che le censuazioni subirono in Sicilia un incremento dopo i Vespri, «allo scopo di porre rimedio ai danni e alle devastazioni arrecati alle campagne dagli eventi bellici»4.
A Monreale sembra invece che si sia verificato un fenomeno opposto: quello relativo alla rinuncia delle concessioni enfiteutiche e alla conseguente restituzione dei beni immobili all’arcidiocesi.
Queste circostanze sono comunque inquadrabili in quel periodo di crisi che va dalla metà del Trecento agli ultimi decenni del Quattrocento, i cui tratti dominanti sono ancora discussi e difficili da precisare anche se ormai accertati sono il crollo demografico della popolazione, colpita da una serie di carestie e pestilenze, e il conseguente abbassamento del livello della produzione e degli scambi, che in Sicilia fu aggravato dai mutamenti nella situazione del commercio internazionale. Fatti in cui però, per quanto diverse ne siano le interpretazioni, non tutti sono concordi nel vedere i sintomi di una vera decadenza.
In un articolo rimasto famoso, Carlo Cipolla aveva segnalato nelle affittanze a lungo termine o perpetue uno degli strumenti giuridici che con maggiore sicurezza di esiti aveva portato alla perdita definitiva dei beni fondiari e alla crisi della proprietà ecclesiastica5. Questa interpretazione, che trova un sicuro appiglio nei reali sintomi di degradamento morale e materiale della Chiesa tardomedievale, non tiene però in conto che la dispersione dei patrimoni ecclesiastici non fu dappertutto così diffusa o prolungata e che in molti casi il declino di certi possessi fu controbilanciato dalla rinascita o dalla prosperità di altri. Sembra infatti che – almeno a Monreale – per tutto il XIV secolo le proprietà della chiesa restino comunque notevoli e che il fenomeno della censuazione non sia stato tale da produrre conseguenze incisive sulla struttura economica del suo dominio: ciò che il cartulario indica chiaramente è piuttosto la tendenza crescente, fin dal secolo XIII, da parte della grande abbazia a delegare la cura dei propri possessi a fittabili. Sorge spontanea la domanda: fino a che punto la crisi del sistema economico implicò la distruzione dei vecchi patrimoni e una ridistribuzione della proprietà? Nelle convulse vicende politiche del tardo medioevo siciliano, il mondo ecclesiastico – che pure vi fu coinvolto – sembra mantenere intatto il proprio patrimonio: adottando forme più redditizie e sicure di conduzione della terra, mutando gli affitti a breve termine e spesso in natura in canoni perpetui in moneta, prendendo parte al processo di trasformazione della struttura agraria le istituzioni ecclesiastiche riuscirono nel complesso a mantenere le loro consistenti posizioni. La crisi, documentata dagli esempi di restituzione esaminati, investe piuttosto i ceti medi della società, testimoniando una fase d’instabilità iniziata coi disordini e i dissesti politico-istituzionali causati dal Vespro e, per la chiesa di Santa Maria Nuova, la perdita di quel ruolo sociale – assegnatole dalla monarchia normanna – di ripopolamento delle campagne e recupero religioso.
2 Cfr. C.M. Rugolo, L’organizzazione del lavoro nelle campagne siciliane del tardo Medioevo, in Quaderni medievali, 15 (1983), pp. 53-79:64. 3 Cfr. L. Sorrenti, Il patrimonio fondiario in Sicilia. Gestione delle terre e contratti agrari nei secoli XII-XV, Milano, Giuffrè 1984, p. 223. 4 Id., p. 222. 5 Cfr. C.M. Cipolla, Une crise ignorée. Comment s’est perdue la propriété ecclésiastique dans l’Italie du Nord entre le Xie et le XVIe siècle, in Annales. Economies, Sociétés, Civilisations, 2 (1947), pp. 317-327. Le considerazioni dello studioso sono state riprese da G. Chittolini, Un problema aperto: la crisi della proprietà ecclesiastica fra Quattro e Cinquecento, in Rivista Storica Italiana, 85 (1973), pp. 353-392. |