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Strategie di gestione del patrimonio:

l’enfiteusi sulle terre di Santa Maria Nuova 

L’analisi delle carte relative alle vertenze patrimoniali, oltre a delineare un quadro in cui la grande diocesi di Monreale intratteneva relazioni e contatti a più livelli della scala sociale – dagli esponenti della borghesia e dell’aristocrazia siciliana ai contadini che coltivavano le sue terre – è indicativa delle difficoltà implicite nell’amministrazione di un territorio così esteso e socialmente complesso.

Controversie e Usurpazioni Patrimoniali

 

 

Numerosi studi hanno rilevato, a partire dal XIII secolo, le costanti preoccupazioni finanziarie dei grandi enti ecclesiastici, causate da un’organizzazione territoriale sempre più frammentata, da rendite poco elastiche  e comunque in natura e in servizi piuttosto che in moneta, dalla strutturale incapacità a sostenere consumi di lusso e, più in generale, ad adeguarsi alla forte accelerazione del dinamismo economico, che accresceva la potenza dei capitali creditizi urbani1.

L’equilibrio delle forze nella società rurale e l’effettivo controllo della proprietà stavano evidentemente spostandosi:  come ha abilmente sintetizzato Philip Jones,

messi di fronte a difficoltà sempre maggiori nel mantenere l’amministrazione curtense, i grandi proprietari erano spinti o ad adottare metodi nuovi, o semplicemente a dare in locazione i loro patrimoni,

P. Jones, Per la storia agraria cit., p. 231.

Al di là di queste acquisizioni incontestabili e valide per tutta la penisola italiana, l’ostacolo maggiore per la sopravvivenza del dominio monrealese fu tuttavia rappresentato dalla scomparsa del villanaggio che, pur ben radicato nella società siciliana di età normanno-sveva, si esaurì quasi del tutto nel corso della seconda metà del Duecento senza che probabilmente intervenissero specifici atti di emancipazione collettiva.

 

 

Fattori decisivi per il definitivo smantellamento del sistema furono – piuttosto – la pressione fiscale, che indusse i più poveri ad abbandonare l’incolatum, i matrimoni misti fra uomini e donne di signori diversi, i movimenti migratori verso città e centri di nuova fondazione oltre, naturalmente, alla stessa politica repressiva di Federico II.

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Arginare il fenomeno, che aveva implicato il drammatico spopolamento dei casali e l’abbandono delle aree agricole più produttive della diocesi, significò quindi anche per Santa Maria Nuova riformulare i rapporti agrari esistenti sul proprio territorio, introducendo nuove forme di gestione economica basate per lo più su contratti enfiteutici ventinovennali e su fitti a breve termine.

Con specifico riferimento alla gestione dei patrimoni ecclesiastici siciliani, ricerche recenti hanno contribuito a fare luce sulla condizione della terra dopo la crisi del sistema del villanaggio. È emerso, fra l’altro, un chiaro predominio delle locazioni enfiteutiche, tanto per la tarda età normanna quanto per il periodo che qui interessa, specialmente a muovere dal terzo-quarto decennio del Duecento,

A. Cortonesi, Contrattualistica agraria e proprietà ecclesiastica (metà sec. XII-sec. XIV) cit., pp. 117-118.

 

 

 

La pratica enfiteutica, diffusasi dalla prima metà del XIII secolo, salvava – almeno in apparenza – il diritto eminente del concedente, aggirando quel divieto di alienazione che era stato fondamento della legislazione ecclesiastica e a cui si era sempre appellata la diplomatica normanna nella redazione degli atti di concessione.

La legislazione di Giustiniano proclama subito questa inalienabilità, che nei secoli futuri sarà sempre mantenuta come punto fondamentale della legislazione religiosa. I diplomi normanni fanno continuamente appello a questa norma e in termini categorici proibiscono ogni vendita che intacchi il patrimonio immobiliare dei monasteri,

G. Tabacco, Dai re ai signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Torino, Bollati Boringhieri 2000, p. 258.

Il tema dell’inalienabilità dei beni della chiesa fu ripreso anche da Federico II, che nel 1247 interveniva «per dichiarare nulle quelle concessioni che contrastavano con i diritti di jus et proprietas feudi, mentre autorizzava i negozi ad certam partem fructum. Federico II distingueva i due negozi giuridici di contro all’opinione di alcuni reintegratores feudorum i quali, invece, consideravano abusive sia le concessioni enfiteutiche che quelle ad partem stipulate con i burgenses locali dai feudatari»,

V. D’Alessandro, Il ruolo economico e sociale della Chiesa in Sicilia dalla rinascita normanna all’età aragonese cit., p. 281.

È indubbio che il regime delle concessioni a lungo o lunghissimo termine, così gradito dai curatori del patrimonio ecclesiastico fondiario, non rispecchiasse le direttive in tema di gestione di immobili che a più riprese erano state tracciate dal diritto canonico.

Eppure, pur essendo praticata a tutti i livelli della grande proprietà fondiaria, gli ambiti territoriali che permettono maggiormante di seguire il trend dell’enfiteusi sono senza dubbio legati ai patrimoni degli enti religiosi: sembra anzi che debba essere attribuito proprio a questi ultimi, forse perché colpiti più in larga misura dalla mancanza di manodopera che la fine dei rapporti di villanaggio e il progressivo spopolamento delle campagne avevano provocato, l’aver messo in atto su larga scala cessioni di terra a titolo di censo e di enfiteusi ventinovennale o perpetua2.

L’enfiteusi assicurava al beneficiario il godimento del fondo pieno e senza limiti di tempo, mentre al concessionario restava un buon margine di profitto – un canone pecuniario basso ma costante e sicuro nel tempo – senza assumersi gli oneri e i fastidi che la conduzione diretta necessariamente comportava.

In realtà quindi, più che un provvidemento preso in circostanze critiche eccezionali, l’enfiteusi finiva col diventare una prassi generalizzata in cui si concretizzava quella spinta alla radicale semplificazione e alla sostanziale eliminazione della duplicità di dominii – spirituale e temporale – che era stata la caratteristica del primo secolo del governo monrealese: il che, tradotto nella pratica, significava conservare e consolidare un pieno diritto sulle proprietà immobili traendone quei redditi in passato non pienamente goduti.

I divieti canonici sono testimoniati nel cartulario dalla bolla con cui Innocenzo III ordinava all’arcivescovo Caro di non alienare le possessioni della sua mensa, comandandogli anche di revocare al proprio capitolo le chiese di San Clemente e del San Sepolcro di Messina che lo stesso arcivescovo aveva concesso in beneficio a Gerardo Teutonico e Tommaso Ferrario.

 

 

Il 30 ottobre dello stesso anno il Papa, col breve Dilecti filii fratres, chiedeva anche l’intervento dell’arcivescovo di Reggio e del vescovo di Cefalù, affinchè la chiesa di San Sepolcro et alia, che erano state inconsultamente alienate da Caro, ritornassero in potere dell’arcivescovo di Monreale.

Il diploma non è stato trascritto nel cartulario, ma è regestato da Garufi, cfr.

C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di S. Maria la Nuova cit., doc. 77 (Laterano 1198, 30 ottobre, Ind. II), p. 37.

 

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Nonostante le interdizioni citate, l’addensamento in pochi anni di atti eterogenei di concessioni enfiteutiche conferma la politica economica condotta dalla chiesa Santa Maria Nuova in direzione delle censuazioni.

Tra i conduttori dei contratti – non trascritti nel Liber Privilegiorum e tutti collocabili nella seconda metà del XIII secolo – compaiono frequentemente esponenti della piccola aristocrazia urbana monrealese e palermitana, ma anche personaggi legati alle sfere burocratiche e legali del Regno: tra i tanti, Simone di Calatafimi, cui nel 1269 l’arcivescovo Trasmondo assegna in acaptum il casale di Racalmuri dietro censo annuo di tre augustali; il cittadino palermitano Venuto de Pulcaro, che affitta per sei anni il casale Menzelabdella pagando un censo annuo di 7 onze d’oro; il nobile Filippo di Traina, cui nel 1280 viene assegnato il casale di Rahalgalid nel territorio di Iato e il tenimento di terre Ursinae in cambio di 5 onze d’oro.

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Particolarmente attivo nella gestione dei contratti fu l’arcivescovo Giovanni Boccamazza: nel 1280 concedeva Rahalgidit al miles palermitano Nicoloso di Malevo per 15 anni,  ricevendo in cambio due onze d’oro l’anno;  nel 1281 stipulava con i corleonesi Ventura di Ferentino e Pietro Nigro un contratto di locazione decennale relativo ad un gruppo di case e vigne in territorio di Corleone; nel 1282 assegnava a Giacomo Vallektus e Giacomo di Busimensio, abitanti del casale di Busackinum, il mulino di contrada Silcalbe, che i due avrebbero avuto in concessione per dieci anni dietro la corresponsione di una gabella annua di 15 salme di frumento.

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Se i contratti a lungo termine, oltre a rispondere alle esigenze di una coltivazione intensiva su unità produttive non estese ma per le quali evidentemente era venuta a mancare la mano d’opera, permettevano il godimento di fondi non ancora fruttiferi – per natura o incuria – sui quali era necessario dispiegare attività di coltivazione particolarmente impegnative come bonifica, disboscamento, dissodamento e riorganizzazione produttiva3, l’esame dei contratti stipulati con i personaggi citati, caratterizzati nel complesso da una scrittura molto semplice, non predispongono in realtà per i casali e per le tenute ad essi pertinenti un particolare regime di coltivazione né tantomeno richiedono al conduttore specifiche attività di trasformazione: l’attenzione dei contraenti sembra piuttosto essere rivolta alla sicura riscossione del canone e alla totale percezione di redditi e proventi di ciascun cespite, come indicherebbe il privilegiamento delle clausole penali per l’inadempiuto pagamento del canone.

Non è poi da trascurare il ruolo emergente che la borghesia cittadina, in particolare monrealese, assunse nella contrattazione enfiteutica delle proprietà della grande abbazia, affiancando il nutrito gruppo di nobiles e milites, giudici e notai, già impegnati nello sfruttamento economico della terra a fini commerciali.

Ciò che questi contratti registrano sembra essere qualcosa di più di un mutamento nel sistema amministrativo: è la formazione di una nuova classe di possidenti i quali, per mezzo di locazioni o contratti, stavano costruendo dei patrimoni terrieri e sfruttando le possibilità dello sviluppo agricolo sul territorio della diocesi.

Per i cambiamenti della struttura sociale sul territorio sarebbe necessario uno studio complessivo sul tipo delle ricerche ora in corso in Francia sulle vicende della nobiltà medievale, cfr.

G. Duby, Une enquête à poursuivre: la noblesse dans la France médiévale, in Revue Historique, 226 (1962), pp. 1-22.

Lucia Sorrenti ha sostenuto che le censuazioni subirono in Sicilia un incremento dopo i Vespri, «allo scopo di porre rimedio ai danni e alle devastazioni arrecati alle campagne dagli eventi bellici»4.

 

 

A Monreale sembra invece che si sia verificato un fenomeno opposto: quello relativo alla rinuncia delle concessioni enfiteutiche e alla conseguente restituzione dei beni immobili all’arcidiocesi.

Nel 1306 ad esempio, il cavaliere palermitano Ruggero di maestro Angelo rinunciava – in presenza di Fra’ Giordano, procuratore di Monreale – al casale Cumeita e alla tenuta di Darkibire, nel territorio di Iato, che gli erano stati concessi dall’arcivescovo Benvenuto.

 


Tra 1306 e 1307 anche Simone di Calatafimi abbandonava i diritti detenuti sul casale Racalmiro e sul casale Picheni.

documento IV.5 (Monreale 1306, 1 agosto, IV ind.)

documento IV.6 (Palermo 1307, 9 agosto, V ind.)

 

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Queste circostanze sono comunque inquadrabili in quel periodo di crisi che va dalla metà del Trecento agli ultimi decenni del Quattrocento, i cui tratti dominanti sono ancora discussi e difficili da precisare anche se ormai accertati sono il crollo demografico della popolazione, colpita da una serie di carestie e pestilenze, e il conseguente abbassamento del livello della produzione e degli scambi, che in Sicilia fu aggravato dai mutamenti nella situazione del commercio internazionale. Fatti in cui però, per quanto diverse ne siano le interpretazioni, non tutti sono concordi nel vedere i sintomi di una vera decadenza.

«Uno degli aspetti più singolari della pestilenza è la scarsità di tracce letterarie o di altra natura che essa lasciò dietro di sé». Nonostante la scarsità di fonti cronachistiche sull’argomento è comunque possibile valutare in modo indiretto la portata del collasso demografico: «tra il 1300 e il 1392 scomparvero oltre il 60% delle famiglie aristocratiche siciliane»,

S.R. Epstein, Potere e mercati in Sicilia cit., p. 53.

In un articolo rimasto famoso, Carlo Cipolla aveva segnalato nelle affittanze a lungo termine o perpetue uno degli strumenti giuridici che con maggiore sicurezza di esiti aveva portato alla perdita definitiva dei beni fondiari e alla crisi della proprietà ecclesiastica5.

Questa interpretazione, che trova un sicuro appiglio nei reali sintomi di degradamento morale e materiale della Chiesa tardomedievale, non tiene però in conto che la dispersione dei patrimoni ecclesiastici non fu dappertutto così diffusa o prolungata e che in molti casi il declino di certi possessi fu controbilanciato dalla rinascita o dalla prosperità di altri.

Sembra infatti che – almeno a Monreale – per tutto il XIV secolo le proprietà della chiesa restino comunque notevoli e che il fenomeno della censuazione non sia stato tale da produrre conseguenze incisive sulla struttura economica del suo dominio: ciò che il cartulario indica chiaramente è piuttosto la tendenza crescente, fin dal secolo XIII, da parte della grande abbazia a delegare la cura dei propri possessi a fittabili.

Sorge spontanea la domanda: fino a che punto la crisi del sistema economico implicò la distruzione dei vecchi patrimoni e una ridistribuzione della proprietà? Nelle convulse vicende politiche del tardo medioevo siciliano, il mondo ecclesiastico – che pure vi fu coinvolto – sembra mantenere intatto il proprio patrimonio: adottando forme più redditizie e sicure di conduzione della terra, mutando gli affitti a breve termine e spesso in natura in canoni perpetui in moneta, prendendo parte al processo di trasformazione della struttura agraria le istituzioni ecclesiastiche riuscirono nel complesso a mantenere le loro consistenti posizioni.

La crisi, documentata dagli esempi di restituzione esaminati, investe piuttosto i ceti medi della società, testimoniando una fase d’instabilità iniziata coi disordini e i dissesti politico-istituzionali causati dal Vespro e, per la chiesa di Santa Maria Nuova, la perdita di quel ruolo sociale – assegnatole dalla monarchia normanna – di ripopolamento delle campagne e recupero religioso.

 

 

 


1 In particolare sull’argomento v. S. Carocci, Signoria rurale, prelievo signorile cit.

2  Cfr. C.M. Rugolo, L’organizzazione del lavoro nelle campagne siciliane del tardo Medioevo, in Quaderni medievali, 15 (1983), pp. 53-79:64.

3 Cfr. L. Sorrenti, Il patrimonio fondiario in Sicilia. Gestione delle terre e contratti agrari nei secoli XII-XV, Milano, Giuffrè 1984, p. 223.

4 Id., p. 222.

5 Cfr. C.M. Cipolla, Une crise ignorée. Comment s’est perdue la propriété ecclésiastique dans l’Italie du Nord entre le Xie et le XVIe siècle, in Annales. Economies, Sociétés, Civilisations, 2 (1947), pp. 317-327. Le considerazioni dello studioso sono state riprese da G. Chittolini, Un problema aperto: la crisi della proprietà ecclesiastica fra Quattro e Cinquecento, in Rivista Storica Italiana, 85 (1973), pp. 353-392.