Semiotica dei confini e descrizione del territorio
Per gli studiosi che fondano l’ordine politico medievale sui rapporti di dipendenza personale, le operazioni relative alla demarcazione dei confini non indicano un momento costitutivo nella definizione della territorialità. Al contrario, non pochi storici – soprattutto francesi – hanno sostenuto che l’esigenza di tracciare confini con valore non esclusivamente giurisdizionale sia stata una pratica fortemente legata al momento in cui alcune formazioni politiche cominciavano a sottrarsi all’influenza dell’Impero.
L’impostazione del problema, basato in entrambi i casi sulla nozione giuspolitica del confine, lascia sullo sfondo la costruzione medievale del concetto di territorio e – ancor di più – tutta quella sfera di facoltà, prerogative e diritti che, passando attraverso comunità e singoli individui, finiscono con l’avere un’incidenza reale sull’ordinamento geografico, sociale e politico.
Lo sforzo legato alla redazione dei confini, che si riallaccia alla necessità di interagire in termini coerenti con i luoghi da governare, nella prospettiva per cui recuperare e definire le linee confinarie significa appropriarsi politicamente di una dimensione spaziale, è prassi largamente nota alla storiografia attraverso lo studio dei polittici: che, com’è noto, sono fonti fondamentali per l’analisi delle curtes altomedievali, descritte da Pierre Toubert come
Già a partire da questa tipologia inventariale, che traccia una mappa di luoghi su cui sancire precisi valori patrimoniali, si comprende come la descrizione dei limiti ubicatori di una determinata area, in epoca medievale, subisca una profonda semantizzazione.
Dalla metà del secolo X, nell’Italia del Nord si diffonde infatti l’uso, largamente attestato nella documentazione privata, di fornire le misure dei terreni, «di distinguere e separare», misurandole, le diverse realtà del paesaggio fondiario, riportando nelle carte le superfici dei lotti fabbricati, delle vigne, dei prati, delle terre seminative, dei boschi e delle paludi.
Il fenomeno troverà poi piena realizzazione nella documentazione pubblica di matrice comunale: nei libri finium o terminationum, composti su rilevamenti confinari sistematici e basati su una logica di inquadramento complessivo del territorio, l’amministrazione cittadina sperimenterà infatti una razionalizzazione di giurisdizioni e patrimoni in grado di unire alla funzione fiscale quella identitaria e politica.
Nel caso del rollo di Monreale tuttavia, la finalità sembra essere esclusivamente inventariale: più simile quindi, a quella espressa dai libri comunis bolognesi, strumenti di verifica contro usurpazioni e abusi su cui – facendo riferimento ai documenti originali – venivano trascritti gli elenchi, le descrizioni e le superfici delle proprietà immobiliari acquisite dal comune.
Va inoltre sottolineato che lo scopo primario per cui sembra essere stato redatto il diploma non sembra affatto quello di censire i proventi abbaziali o definire obblighi e tributi a carico dei villani dipendenti – come avveniva per i polittici altomedievali – quanto piuttosto quello di documentare efficacemente il modello organizzativo rurale.
Il dominio territoriale illustrato dal rollo è infatti costituito da un insieme di terre e dipendenti sparsi all’interno di uno o più villaggi; non un latifondo compatto, ma nuclei di appezzamenti, beni, diritti e uomini dipendenti dal signore ecclesiastico1: una struttura che potrebbe fornire qualche indicazione utile ad illuminare il quadro generale dell’amministrazione della grande proprietà fondiaria ecclesiastica meridionale nei secoli XII e XIII, tema in gran parte ancora oscuro a causa della scarsità, reticenza e nebulosità della documentazione pertinente.
Leggendo il lungo documento, una prima constatazione riguarda il basso livello di astrazione della rappresentazione spaziale: lo sguardo di chi ha condotto la ricognizione topografica appare infatti attento al dettaglio, sia esso un’emergenza rocciosa resa riconoscibile dal colore o dalla forma, edifici ormai abbandonati e in rovina, recinti per animali o grotte. È un’analisi che non lascia vuoti e che si articola in un paesaggio antropizzato ricco di sfumature, raccontato attraverso l’ampia casistica fornita dall’orografia e idrografia siciliane ma anche dai tracciati stradali, dalle coltivazioni incontrate lungo il percorso, dalle diverse forme insediative.
Il testo materializza quindi una realtà espressiva composta da segni a carattere tipicamente terminale, facenti capo ad elementi naturali che si polarizzano attorno ai due sistemi territoriali già privilegiati nella pratica confinaria romana, quello idrico e quello viario, attingendo però contemporaneamente agli elementi naturali o artificiali – ponti, fontane, rovine – incontrabili lungo il percorso. La lettura del tracciato si attua così di segno in segno, lungo linee teoriche che connotano una profonda volontà di strutturazione dello spazio: i confini descritti, pur incontrando numerosi elementi di discontinuità, procedono lungo assi ideali che tagliano o attraversano strade, montagne, valli e corsi d’aqua, seguendo linee di appartenenza che non sempre assecondano un disegno topografico coerente. La preferenza per un cammino quanto più possibile ininterrotto – anche se solo nella traduzione scritta del paesaggio – sembra ambire ad una ridefinizione geometrica dei luoghi misurati: «si tenta cioè di spostare l’attenzione materiale, oltre che giuridica, dall’uso alla proprietà»2 preferendo allo spazio aperto la struttura rigorosa imposta da uno sfruttamento prevalentemente agricolo.
Il dato che sembra emergere è la volontà di legittimare il confine attraverso la rielaborazione concettuale di segni che traevano comunque origine dal contesto rurale, rendendo contemporaneamente operativa una suddivisione dello spazio in funzione della sua amministrazione e gestione: come ha giustamente sottolineato Lagazzi,
Ciò non significa che questo tentativo di razionalizzazione, di ricerca di linee preferenziali, spesso non finisca col perdersi – proprio nel documento analizzato – nella varietà e complessità dei singoli elementi descritti, lasciando intuire una visione dello spazio non totalizzante e incontrastata ma anzi, sommersa dalla varietà del contesto territoriale. Un’ultima osservazione va infine condotta sull’abbondanza di toponimi e onomastici presenti nel rollo.
Lo stesso Lagazzi ricorda come molti documenti simili, anche di epoca posteriore, tramandino spesso una descrizione terminale realizzata attraverso forme toponomastiche ubicative o semplici riferimenti patrimoniali3 . Nel lungo diploma monrealese la tensione conoscitiva si esplica invece in una microtoponimia a volte esasperata, che definisce ogni singola realtà produttiva ma anche i personaggi ad essa legata. Se rintracciare veri e propri confini appariva un’operazione complicata, li si cercava andando a scavare nei ricordi degli anziani – fatto questo, che rappresentava una prassi normale dell’epoca in questione – creando una forte compenetrazione umana, territoriale ed economica nelle zone di frontiera. È dunque possibile concludere che la complessità delle definizioni confinarie derivi dall’incrocio tra una dimensione geografico-territoriale e una dimensione personale, intrinseca alla giurisdizione sugli uomini, e che la preferenza accordata al supporto di un “catasto vivente”, di una realtà che attraverso la scrittura si rende conosciuta e riconoscibile, indichi quasi un rifiuto dello spazio astratto e razionale in favore di un’umanità varia e concreta, che agisce, frequenta e gestisce il territorio.
1 Cfr. L. Provero, L’Italia dei poteri locali. Secoli X-XII cit., p. 56. 2 L. Lagazzi, I segni sulla terra. Sistemi di confinazione e di misurazione dei boschi nell’alto Medioevo, in Il bosco nel Medioevo, a cura di B. Andreolli, M. Montanari, Bologna, Clueb 1988, pp. 17-34.21. 3 Cfr. L. Lagazzi, Segni sulla terra. Determinazione dei confini e percezione dello spazio nell’alto Medioevo, Bologna, Clueb 1991, p.48. |