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Le forme dell’insediamento

L’esame della documentazione monrealese offre immagini paesaggistiche che assumono consistenza quando i termini descrittivi dello spazio si trasformano in toponimi. In questa conversione si trasferisce sul territorio tutto il complesso mondo degli uomini che, attraverso il possesso e l’azione sul terreno, legano inesorabilmente la propria storia a quella delle forme insediative.

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Se infatti le attività connesse all’agricoltura e all’allevamento manifestano strette relazioni con la distribuzione demografica rurale, la toponomastica si rivela ancora una volta lo strumento adeguato per rintracciare dettagli e caratteristiche significative di forme, funzioni e modi di stanziarsi – in maniera temporanea o permanente – sul suolo siciliano: nelle parole di Philip Jones,

«di tutti gli aspetti della storia agraria, l’evoluzione dell’insediamento rurale è quello forse che più compendia e più riflette le vicende della vita rurale e i vari fattori che la regolano: politici, economici, geografici».

Lo storico ha tuttavia sottolineato come il settore sia – sfortunatamente - «quello che più dimostra la trascuratezza degli studi agrari. Salvo che per i periodi più antichi e per quelli più moderni, pochissime sono le opere che trattano o toccano l’argomento, e in essa è invalsa l’usanza di dare preminenza ai fattori politici piuttosto che a quelli economici»,

P. Jones, Per la storia agraria cit., p. 226.

 

Economia delle campagne e sfruttamento del suolo

Toponomastica siciliana

Storia agraria

 

 

 

 

 

La storia dell’insediamento, e già soltanto l’analisi del vocabolario legato all’habitat, rappresentano dunque una traccia importante per comprendere l’assetto complessivo del dominio di Monreale.

La chiesa di Santa Maria Nuova amministrava un paesaggio vario e articolato, in prevalenza abitato da villani saraceni distribuiti in un centinaio di abitati spesso in siti d’altura, che costituivano l’intelaiatura portante di un’area geografica critica.

Questa grande riserva musulmana, sorvegliata e stretta da una catena di borghi fortificati e castelli, alla fine del XII secolo sembrava essere un frammento di passato ormai pericolosamente in bilico, una residua isola eterodossa la cui definitiva acculturazione, demandata ai monaci di Monreale, doveva essere considerata solo questione di tempo.

 

 

La spietata repressione promossa circa un secolo dopo da Federico II dimostra che le cose non andarono esattamente come l’accorta politica normanna si era prefigurata.

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Sul territorio governato da Monreale, assenti le città, si contano sostanzialmente due tipologie di insediamento in probabile rapporto gerarchico: siti forti di altura o incastellati – come Corleone – e siti aperti di collina o pianura, generalmente distribuiti attorno ad un casale.

Gli abitati maggiori, quando non stavano sul mare, gravitavano comunque sulla costa. La stessa Monreale «pur sede degli uffici centrali, sarà a lungo priva di un urbano consistente sia per la mancanza di accesso diretto al mare e quindi di traffici commerciali di un certo peso, sia per l’esiguità degli abitanti e certamente anche per un’attività produttiva che appare di dominio esclusivo dell’abate e del re»,

A.I. Lima, Monreale cit., p. 11.

La maggior parte degli stanziamenti, spesso ancora oggi abitati o danneggiati da attività costruttive recenti, rende la lettura dei dati archeologici non priva di difficoltà, sebbene negli ultimi anni le sempre più numerose ricognizioni di superficie abbiano dimostrato la tendenza verso quella che sembrerebbe una concentrazione dell’habitat sul luogo di precedenti insediamenti tardo-romani e bizantini di pianura e collina.

Una terza forma insediativa, più difficile da rintracciare sul terreno ma largamente attestata dalla documentazione trascritta nel liber, è costituita dagli stanziamenti rupestri.

 

 

L’assetto e l’entità dell’abitato sparso – di questi casali ereditati dagli arabi che diverranno masserie instabili «espressione di una società latifondista orientata verso i mercati internazionali del grano»1 – appaiono ancora oscuri.

L’unica certezza sembra essere la continuità storica di numerose località rintracciate nel corso della Monreale Survey, fatto che ha spinto Jeremy Johns a suggerire una persistenza insediativa tra l’età antica e il periodo islamico.

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Precisamente tra età tardo-romana (V-VI sec.) ed età araba (VIII-IX), cfr.

J. Johns, La Monreale Survey cit, pp. 415-416.

Casomai lo studioso anglosassone preferisce riconoscere segni di cambiamento tra XII e XIII secolo,

Ibid., p. 415.

 

Si tratta tuttavia di un’eredità nascosta, priva di elementi fisici: della struttura materiale di queste unità abitative e, più in generale, del patrimonio architettonico rurale non resta quasi più nulla. Se la scomparsa degli edifici cultuali d’epoca musulmana può essere spiegata nell’ottica della cristianizzazione e dello sradicamento dell’Islam dal Val di Mazara, resta inoltre enigmatica la mancanza di tracce di strutture militari.

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Monreale nel quadro della politica ecclesiastica normanna

 

 

L’unica spiegazione per un’assenza così evidente può essere fornita dall’utilizzo di terra cruda come principale materiale costruttivo delle fortificazioni, soprattutto per i centri minori, secondo una tipologia utilizzata nell’Occidente islamico in età fatimide, cfr.

F. Cresti, Città, territorio, popolazione nella Sicilia musulmana. Un tentativo di lettura di un’eredità controversa, in Mediterranea. Ricerche storiche, 4 (2007), pp. 21-46:39-43.

Nella documentazione monrealese la parola casale e i suoi corrispondenti arabi designano una varietà di tipologia insediativa relativamente sfumata ma generalmente caratterizzata dalla struttura accentrata e dalla mancanza di mura o altri elementi di fortificazione.

«Allo stato presente, gli studi portati a termine rilevano forme di insediamento raggruppate per casale, cioè per villaggi aperti, non difesi, isolati»,

S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva cit., p. 586.

Prima del XII secolo, tale forma di stanziamento non viene documentata nelle fonti scritte se non in forma indiretta o ambigua e anche dal punto di vista archeologico le conoscenze sul casale siciliano restano piuttosto limitate, tanto da apparire ancora sfuggente l’evoluzione e il passaggio dall’epoca pienamente musulmana a quella normanna.

Tuttavia l’abbondanza degli abitati intercalari testimoniata dalla diplomatica dei secoli esaminati e una toponomastica ricchissima di nomi in rahal e manzil indicherebbero una continuità topografica e strutturale priva di rotture.

La maggior parte dei casali riporta infatti forme toponomastiche antropizzate risalenti «al momento musulmano della presenza araba nell’isola ed escludenti una fondazione in epoca normanna»,

H. Bresc, La casa rurale cit.

«La documentazione scritta, come già accennato, su alcune centinaia di casali, non testimonia molti casi di fondazioni ex novo fra XI e XIII secolo. Anche dall’esame delle fonti scritte esce quindi rafforzata l’ipotesi di una sostanziale continuità materiale e topografica tra il casale normanno e il rahal di età pienamente islamica»,

F. Maurici, L’insediamento medievale in Sicilia: problemi e prospettive di ricerca, in Archeologia Medievale, 22 (1995), pp. 487-500.

Nessun documento fornisce notizie chiare sull’impianto geometrico del casale che sembra essere collocato, di frequente, sui dossi, i promontori limitati dai valloni o lungo i crinali dei colli2, riflettendo un’organizzazione del territorio condizionata da esigenze di sopravvivenza e difesa.

«E non è senza significato che la maggior parte di essi (…) sia sorta lontano dagli itinerari strategici, dalle grandi strade di comunicazione e dalle mulattiere che si snodavano per le più dirette vie delle valli o delle pianure spesso paludose, contribuendo a modificare non solo la geografia dei luoghi, ma anche il sistema di collegamento che si dipanava così attraverso sentieri e tracciati che correvano lungo i crinali dei colli, di terra in terra, di borgo in borgo, di castello in castello»,

S. Tramontana., La monarchia normanna e sveva, Torino 1986, p. 20.

 

È probabile che queste costruzioni rurali fossero realizzate con pietre a secco e tetti di canna e paglia, senza malta ma con un impasto di terra argillosa e calce: l’ipotesi concorda con i resti di Brucato e Calathamet e  spiegherebbe la scarsa resistenza degli abitati abbandonati.

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Ipotesi ricostruttive sul castello di Calathamet

Le dimensioni dell’insediamento variavano: da quelle esigue – luoghi abitati da una sola famiglia di coltivatori – alle unità abitative di oltre cento villani e una media di trenta nuclei familiari. Il valore intermedio però resta modesto, attestandosi sulla decina di famiglie per casale.

Chiarissima sembra invece essere la subordinazione giuridica del casale ad un centro eminente – circondato da mura, fortificato e talvolta munito di castello – a cui era legato da vincoli amministrativi e giudiziari: ciò che caratterizzerebbe il casale siciliano sarebbero dunque lo statuto giuridicamente inferiore e la posizione topografica in siti collinari aperti, al massimo cinti da fossati.

Il casale si definisce quindi «per questo rapporto di dipendenza amministrativa e militare; esso normalmente non ha organi di giustizia e di amministrazione che reggono le terre. Mancano i notai e i giudici, più tardi i giurati; si conoscono solo i boni homines, chiamati a dare testimonianza nei frequenti litigi sui limiti dei territori»,

M. Aymard, H. Bresc, Problemi di storia dell’insediamento nella Sicilia medievale e moderna. 1100-1800, in Quaderni Storici, 24 (1973), pp. 945-976:947.

Resta quindi ancora valida la definizione del casale d’epoca prenormanna fornita da Lizier oltre un secolo fa:

un piccolo nucleo economico composto di più fondi di natura e cultura diversi, situati nella medesima località, con le loro pertinenze, con una o più case per le fabbriche o edifici necessari all’azienda rurale assegnati ad una o più famiglie di coltivatori,

A. Lizier, L’economia rurale nell’età normanna nell’Italia meridionale, Palermo, A. Reber 1907, p. 185.

Sull’edilizia rurale minore v. anche La casa rurale in Italia, a cura di G. Barberi, L. Gambi, Firenze, L. Olschki 1970 (Ricerche sulle dimore rurali in Italia, 29).

 

Nella Sicilia Occidentale la popolazione dei casali era per lo più costituita da villani di origine musulmana, anche se gli accenni ad una cultura januensis e al vallone iudeorum – rispettivamente nella divisa Summini e nella divisa Lachad descritte dal rollo – sembrano indicare la presenza di altre etnie sul territorio.

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Si potrebbe ipotizzare che anche la divisa del casale Amrun, caratteristico nome giudeo, possa indicare una circoscrizione abitata da ebrei.

Inevitabilmente però, la maggioranza dei coloni apparteneva al ceppo arabofono: «un mosaico etnico di berberi, persiani, arabi, mahgrebini, andalusi»3 soggiogati dalla conquista normanna e ricaduti sotto un istituto analogo a quello islamico della dhimma, che in passato aveva garantito alle comunità religiose ebree e cristiane il riconoscimento della libertà di culto, della persona giuridica e di una serie di pubbliche libertà previo pagamento di un’apposita imposta nota come jizya4.

A proposito degli andalusi, sia la divisa Hendulcini che il “casale quod dicitur Hendulsin” nella divisa Desise indicherebbero chiaramente zone abitate da immigrati provenienti dall’Andalusia.

Nella platea del 1183 figurano inoltre esplitamente un ‘Abd-Ellah l’Andaluso, un Abu-Beker l’Andaluso tra i coloni di Sìrifi; a Minzil un ‘Abd-er Rachmen e nella circoscrizione di Cumayt un ‘Isê figlio dell’Andaluso,

cfr. B. Rocco, Andalusi in Sicilia cit.

È comunque più probabile che questa fosse una condizione offerta ai cittadini, e che invece la popolazione contadina fosse ridotta in uno stato semi-servile di villanaggio con forme ascrittizie di vincolo alla terra ex origine o ratione tenimenti e la possibilità di riscattarsi.

«La fase di espansione del villanaggio si svolse, nelle grandi linee, attraverso l’arco di un secolo: in crescenza dagli ultimi decenni del secolo XI fino alla metà del 1100, andò declinando nella seconda parte del secolo fino a chiudersi in coincidenza con la fine della dinastia normanna. I documenti di concessione di villani da parte della corte e di feudatari (che non rappresentano i momenti costitutivi del villanaggio ma sono i segni della sua esistenza) vanno dalle dotazioni dei grandi monasteri e delle chiese vescovili, intorno al 1090, fino ai primi anni del XIII secolo»,

I. Peri, Villani e cavalieri nella Sicilia medievale, Roma-Bari, Laterza 1993, p. 39.

La formula di ascrizione “intuitu personarum”  comportava il divieto, per gli abitanti del casale, di allontanarsi da esso: non erano tuttavia infrequenti gli spostamenti da un centro all’altro quando non addirittura le fughe. I dipendenti respectu tenimentorum potevano invece accedere agli ordini sacri anche senza l’autorizzazione dei domini, con l’obbligo però di restituire a questi ultimi la terra avuta in concessione dal momento che se ne allontanavano. Questa seconda opzione appare tuttavia rara, mentre la documentazione di epoca normanna mostra l’onnipresenza della forma di villanaggio vincolante, in cui l’uomo è dato in donazione regolarmente insieme al casale dove abita e alla terra che coltiva, allo scopo di esercitare un controllo simultaneo sui due fattori complementari della produzione.

 

 

La caratteristica del nuovo servaggio, che per lo più non alterava formalmente lo status giuridico del contadino – almeno nella fase iniziale del nuovo tipo di subordinazione – ma menomava le sue già limitate capacità di agire come uomo libero, era il rapporto di subordinazione ereditaria, «che faceva perno, contemporaneamente, sulla dipendenza personale e su quella reale».

L’impegno del contadino a non abbandonare la terra si ritrova, oltre che nel Regno normanno-svevo, anche nella sottoscrizione di clausole mutuate direttamente dalle norme del diritto romano relative all’adscriptio terrae nei contratti di area toscana, emiliana e area umbro-marchigiana.

Il legame ereditario alla terra e la corresponsione della captazione religiosa  in denaro e in terraggio, che non venivano riscossi dal signore feudale per conto dell’amministrazione reale ma esclusivamente per sé stesso, si traducevano dunque per l’ente ecclesiastico in una fondamentale fonte di ingressi fiscali tanto in denaro che in prodotti agricoli.

Dei circa 160 casali esistenti nei secoli XI-XII nel territorio dell’attuale provincia di Palermo, il grosso di quelli documentati si concentra nell’area del dominio monrealese.

La maggior parte degli abitati appartenenti alla chiesa di Santa Maria Nuova sono attestati nel rollo del 1182 e in alcuni diplomi trascritti nel cartulario, ma altri se ne ricavano dall’analisi di una platea del 1178 rilasciata dal Djwan al tahqiq su ordine di Guglielmo II e contenente i nomi dei casali e dei villani appartenenti alle terre di Corleone e Calatrasi5.

 

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Secondo l’elenco erano regolarmente residenti a Corleone, fra arabi e cristiani 336 capifamiglia (53 cristiani, 283 arabi), mentre 437 erano distribuiti nei casali della terra; le famiglie stabilite entro la terra di Calatrasi erano complessivamente 425.

La platea del 1183 recensisce invece 729 nomi di immigrati ai quali era concessa la permanenza in deroga alle norme e agli editti vigenti, dei quali 569 nella condizione di villani adscripticii e 160 burgenses.

Nel complesso, sembra quindi che i casali appartenenti alle divise di Corleone e Calatrasi – sicuramente le più popolose del dominio monrealese – fossero abitati da oltre un migliaio di famiglie di contadini.

 

 

 

La denominazione in Rahal o Mensil dei casali – cui si aggiunge di solito un’ulteriore voce,  che connette l’abitato al luogo specificandolo attraverso elementi attinti al mondo vegetale e animale o con precisi riferimenti alle colture che vi si praticavano – è il segno evidentissimo della loro preesistenza in epoca araba.

In alcuni casi si dispone inoltre di una documentazione letteraria o d’archivio precedente la fondazione del monastero di Monreale. Tuttavia, non sempre questi elementi sono stati sufficienti per rintracciare l’ubicazione effettiva del casale sul territorio controllato dall’arcidiocesi di Monreale: nomi corrotti da una cattiva trasmissione o inesorabilmente mutati e distanze inesatte hanno in effetti creato non poche difficoltà agli studiosi nell’identificazione e posizionamento dei siti.

Altro nodo problematico è costituito dall’individuazione degli insediamenti che già la documentazione definisce come abbandonati o in rovina.

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Come ha rilevato Philip Jones,

La drammatica sequela del tardo Medioevo è ben conosciuta. Su una Europa vulnerabilmente sovrappopolata e largamente malnutrita s’abbatterono le devastatrici carestie e pestilenze del Tre e Quattrocento; vasti tratti di terreno ridivennero incolti, villaggi furono abbandonati, e la richiesta di terra e prodotti agricoli ristagnò e diminuì,

P. Jones, Per la storia agraria cit., p. 207.

Sembra che la tendenza generale del movimento espansivo nelle campagne medievali europee abbia raggiunto il suo picco tra il tardo XI e l’inizio del XIII secolo e che poi, intorno al 1300, il crescente squilibrio fra sviluppo demografico e sviluppo economico abbia invece provocato il declino della produttività e una crescente difficoltà nel mantenere il livello della sussistenza, i cui sintomi si sarebbero manifestati con l’abbandono dei terreni peggiori, l’aumento del tasso di mortalità fra i ceti più poveri e il ribasso dei prezzi agricoli, anzitutto quello del grano.

In Sicilia, la crisi demografica e l’impatto della guerra dei Vespri avrebbero mutato la distribuzione geografica della popolazione, con l’effetto di una consistente redistribuzione da occidente a oriente a spese del Val di Mazara, che nel Quattrocento sarebbe diventata un’area a insediamento sparso.

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Ma la realtà dello spopolamento dei casali, malgrado l’obbligo di residenza per i villani6, sembra essersi manifestata precocemente nella zona occidentale dell’isola, nonostante ad una effettiva desertificazione di numerosi siti fra XII e XIII secolo faccia da contrappunto la lunga persistenza dei toponimi nell’uso documentario: da qui la difficoltà nell’indicare con precisione – sulla base dei soli riferimenti d’archivio – il momento dell’abbandono o del passaggio definitivo al latifondo disabitato.

«Su scala regionale, le difficoltà di stabilire su base documentaria un’esatta cronologia degli abbandoni sono accresciute dalle incertezze del vocabolario utilizzato dalla cancelleria regia e dai notai. […] Il termine casale in molti casi viene adoperato ancora a lungo dopo lo spopolamento di un fondo»,

F. Maurici, L’insediamento medievale nel territorio della Provincia di Palermo cit., p. 24.

 

Il fenomeno della diserzione dei casali e in generale degli insediamenti rurali aperti sembra comunque essere piuttosto consistente già a partire dalla fine dell’XII secolo: nel rollo del 1182 alcune località delle divise di Monreale sono infatti indicate come deserte o distrutte.

Desertum è il casale Belich, vacuum il casale Palamiz, dirutas le case di Pagano di Gorgia, ubicati nel territorio di Iato.

Nel corleonese si incontrano le ruinas desertas Veteris Briace; nella divisa Bactallarii gli hedificia diructa Haret Elgafle e i dirroyti de Andalla.

Rovine di edifici si trovano anche nelle divise di Ducki, Magagi e Terrarum Laboratoriarum.

Il fenomeno tuttavia, non è isolato: sembra infatti  che l’abbandono dei villaggi non vada limitato a periodi di grande depressione demografica, ma sia piuttosto una costante nella storia dell’insediamento7.

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L’andamento generale degli abbandoni e dei ritorni segue in ogni caso sviluppi problematici, sui quali sarebbe possibile fare maggiore luce solo disponendo di una più cospicua documentazione e minuziose analisi archeologiche.

Sicuramente la Sicilia medievale presentava stanziamenti rurali fragili, spesso provvisori e soggetti a mutamenti nella dimensione e nella tipologia, a causa del lavoro stagionale condotto sui campi aperti e i pascoli, che finiva col generare una dinamica fatta di spostamenti ed emigrazioni da un casale all’altro e da centri più piccoli verso i borghi fortificati: una mobilità circolare tra contadi che costringe a rivedere i classici schemi storiografici sulle migrazioni interne, finora esclusivamente inscritte all’interno del flusso unidirezionale campagna-città o dalle aree depresse – ad esempio dalla montagna – alle aree economicamente vincenti.


 

Questo movimento, che porterà alla retrazione dell’abitato su poco più di un centinaio di terre, borghi chiusi da mura e dotati dello statuto pieno di universitas, comunità di borgesi con usi civici, comuni, diritti di pascolo e di legna8, può dirsi definitivamente compiuto – per il territorio di Monreale – alla fine del XIII secolo, a seguito dell’intervento di Federico II e della sparizione violenta della componente islamica della popolazione, quando la gran parte dei casali e degli insediamenti fortificati musulmani spopolati negli anni 1189-1246 non verrà mai più riabitata.

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La situazione è stata magistralmente sintetizzata da Ferdinando Maurici:

una realtà impressionante: il vuoto, la sparizione massiccia dell’abitato intercalare di tradizione araba e normanna, risucchiato, quasi annientato dalla repressione federiciana della rivolta islamica,

F. Maurici, L’insediamento medievale nel territorio della Provincia di Palermo cit., p. 68.

Ma v. anche Id., Il vocabolario delle fortificazioni e dell’insediamento nella Sicilia ‘aperta’ dei normanni: diversità e ambiguità, in “Castra ipsa possunt et debent reparari”. Indagini conoscitive e metodologiche di restauro delle strutture castellane normanno-sveve. Atti del Convegno Internazionale di Studio (Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997), Roma, De Luca 1998, I, pp. 25-39:26.

In proposito appare pertinente l’annotazione di Henri Bresc relativa ai reintegratores di Federico II i quali, indagando sullo stato della feudalità tra il 1248 e il 1249 «annotano l’ampiezza del fenomeno di diserzione degli abitati e l’impoverimento dei titolari dei feudi»,

H. Bresch, La feudalizzazione in Sicilia cit., p. 394.

 

 

 

Con la crisi del villanaggio nella Sicilia Occidentale spariranno definitivamente almeno dieci degli abitati d’altura incastellati documentati dalle fonti d’età normanna9,  mentre sull’area controllata dall’arcivescovato di Monreale, del centinaio di rihal attestati dal rollo del 1182 solo sette – Bisacquino, Giuliana, Adragno, Comicchio, Disisa, Modica e Raya – saranno documentati come centri con capacità fiscali negli anni del Vespro10.

Il risultato, dopo il 1350, sarà una geografia e un paesaggio profondamente ridisegnati, decisamente diversi da quelli dei duecento anni precedenti, con vasti latifondi coltivati in modo estensivo e una popolazione accentrata in poche civitates e terre fortificate.

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Una serie relativamente numerosa di toponimi indicati nella documentazione fornita dal Liber Privilegiorum per i secoli del pieno e tardo Medioevo, rimanda a strutture costruttive variegate ma genericamente inscrivibili all’interno della tipologia castellare.

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Archeologia medievale

Tabella sulle Fortificazioni nell'area del monrealese

Lista dei toponimi

 

 

 

 

 

I castelli elencati non sembrano essere, propriamente, presidi di frontiera o simboli militari, ma al contrario elementi insediativi importanti dal punto di vista demografico, facenti parte cioè di un sistema di governo territoriale basato su fortificazioni di modesta entità.

I termini per definire il fortilizio – ubicato in siti elevati e naturalmente difesi – sono molteplici: si va dai più frequenti castrum e castellum al kalat di origine araba, fino alla turris e alla petra, spesso utilizzati indiscriminatamente per indicare una stessa realtà materiale.

L’ambiguità delle fonti medievali siciliane nell’utilizzo parallelo di castrum e castellum è stata oggetto dei numerosi studi proposti da Ferdinando Maurici, il quale giustamente ha ricordato come entrambi servano indicare, tra  XI e XII secolo, sia l’abitato munito e giuridicamente eminente – pur se inferiore per rango alla civitas – sia la fortificazione che lo sorveglia e lo protegge o ancora, le rare fortezze isolate nella campagna. Pare quindi che nelle tre lingue della cancelleria normanna e degli scrittori dell’epoca, non diversamente da quanto succedeva nella parte continentale del Regnum, «gli stessi termini usati solitamente in relazione a strutture e insediamenti fortificati presentino significati spesso omogenei e non sempre decifrabili con sicurezza»11.

L’indeterminatezza permane in epoca sveva, anche se da Federico II in poi si accentua una tendenza alla semplificazione, già avviatasi con la progressiva marginalizzazione dell’arabo nella pratica cancelleresca che troverà compimento solo alla fine del XIV secolo, quando verrà invece generalizzato l’uso documentario e letterario del vocabolo castrum e decadrà l’antico rivale latino castellum.

È comunque probabile che l’uso incerto dei due termini dipenda da una mancata coscienza categoriale nella cultura del tempo, ma anche dalla possibile comprensenza – nel medesimo manufatto – di funzioni appartenenti ad entrambe le tipologie.

I tre siti più rilevanti presenti sul territorio dell’arcidiocesi sono sicuramente i castelli di Iato, Corleone e Calatrasi, assegnati a Santa Maria Nuova sin dalla sua fondazione.

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Resti del castello di Iato

documento I.1

Il primo nucleo dei possedimenti di Santa Maria Nuova

 


 

Se i toponimi in kalat indicano sempre una posizione naturalmente forte, qualificando quindi in primo luogo l’aspetto protetto di un sito12, più sfumato è invece il vocabolo petra che, secondo Elizabeth Lesnes, potrebbe indicare una piccola rupe isolata, un sito roccioso o un semplice feudo spopolato:

queste pietre sono sempre situate al centro di monotoni paesaggi collinari cerealicoli e costituiscono, generalmente, l’unico elemento di contrasto e di potenza della zona circostante,

Cfr. E. Lesnes, Guerre e latifondo: il ruolo dei castelli trecenteschi della Sicilia occidentale, in Atti delle Terze Giornate Internazionali di Studi sull’area Elima cit., pp. 731-746:738-739.

Le petrae come forma di castello rupestre sono state descritte da Messina come costruzioni composte da «dongioni in muratura multipiani, due o più livelli di escavazioni, collegati da rampe o pozzi di comunicazione o con accessi indipendenti per aumentare la qualità di difesa»,

A. Messina, Le chiese rupestri del Val Demone e del Val di Mazara, Palermo, Luxograph 2001, p. 16.

 

La descrizione, nonostante la prudenza nell’intepretazione del toponimo, ben si adatta alle numerose petrae citate nel rollo di Santa Maria Nuova.

Difficoltà si incontrano anche nell’interpretazione del termine turris, che indicherebbe «tanto la torre di un castello o di una cinta urbana che quella isolata o posta a guardia di un casale o di un complesso di domus»13 ma che Henri Bresc ha definito, per la Sicilia medievale, «poco più di una casa, con la fiskia o gebbia, le botti, il palmento scavato nella roccia»14.

In effetti – fermo restando che ricerche su questo tipo di dimore fortificate vadano affrontate con cautela, evitando di cadere in anacronismi e generalizzazioni – nella zona e per il periodo in esame la necessità di difesa e protezione contro eventuali aggressioni non sembrano essere condizionanti, come invece lo diventeranno a partire dal XIV secolo, ed è quindi probabile che le torri attestate nel monrealese indichino robuste case di campagna, punti di appoggio e controllo ubicate nei pressi di piccoli fondi, orti e vigne.

Al di là delle definizioni, sembra che la maggior parte dei siti incastellati menzionati tra i possedimenti dell’arcidiocesi di Monreale fossero preesistenti l’arrivo dei normanni nel Val di Mazara: il famoso rescritto del califfo fatimida al_Muizz all’emiro siciliano Ahmad, datato al 967, attesterebbe che la conquista saracena fu probabilmente alla base di una risalita più o meno generalizzata delle sommità.

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L’ordine califfale intimava di concentrare gli abitanti dell’isola in luoghi fortificati «non permettendo che vivessero sparpagliati per le campagne», cfr.

An Nuwayri, in M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, II, cit., pp. 134-135.

Altro indizio è un passo di Ibn Khaldun, storico del XIII secolo, in cui è contrapposta la facilità con cui nell’XI secolo i normanni occuparono i casali siciliani alla strenua resistenza opposta da molti abitati fortificati.

Francesco Giunta ha recensito per il Val di Mazara – in un periodo compreso tra la conquista normanna e la fine dell’epoca sveva – quarantadue castelli; altri quaranta se ne contavano in Val Demone, mentre ventinove erano quelli ubicati in Val di Noto, cfr.

F. Giunta, I castelli in Sicilia nell’età normanno-sveva, in Id., Non solo Medioevo. Dal mondo antico al contemporaneo, 2 voll., Palermo, Università degli Studi, 1991, I, pp. 121-125.

 

L’iniziativa principale dei normanni sarebbe stata invece un opposto processo di decastellamento, che si concretizzò nell’organizzazione e nello sfruttamento dei casali come simbolo concreto dell’assoggettamento e della costrizione dei villani e che, combinandosi con lo scacchiere delle fortificazioni musulmane, avrebbe dato origine ad un paesaggio in cui i castelli, collocati sulla sommità di un picco, si ergevano a dominio dei distretti rurali.

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Resta però un’ambiguità di fondo, legata anche alla funzione di queste fortificazioni per le quali, tra l’altro, non sembra possibile rintracciare una tipologia costruttiva specifica e di conseguenza, considerare in unico blocco il fenomeno dell’incastellamento sul territorio esaminato.

 

 

In relazione alla struttura delle fortificazioni Illuminato Peri ha osservato che «la descrizione fatta da Edrisi del castello di al_Madarîg (I Gradini, nei pressi di Castellammare del Golfo) – il fossato attorno, il ponte levatoio – potrebbe apparire modellata su una maniera che si ripeteva entro e fuori il più vasto ambito feudale»,

I. Peri, Uomini città e campagne cit., p. 34.

In termini generali, Elizabeth Lesnes ha sottolineato la struttura rudimentale dei castelli medievali, per la cui descrizione ha infatti utilizzato sovente il termine arcaismo, «non legato solamente all’aspetto architettonico degli edifici ma anche al lessico utilizzato all’epoca per definirli»,

E. Lesnes, Guerre e latifondo cit., p. 731

Sicuramente il castello dell’XI secolo, e specialmente nel Mezzogiorno, non rispose che in parte alla necessità di difesa mentre certe forme di insediamento, che potrebbero essere state originate da questa urgenza, furono probabilmente tenute in vita dalle influenze non meno potenti di abitudini sociali, del sistema agricolo e della ripartizione dei terreni.

In questo senso il castello restava l’elemento forte nel paesaggio, capace di polarizzare uno spazio giurisdizionale dipendente e possibilmente originato da istanze di natura economica connesse allo sfruttamento intensivo della terra e al ripopolamento delle zone deserte.

Al castrum siciliano si può quindi attribuire la capacità di “costruire” il territorio intorno a sé, disegnando una geografia politica agganciata ad aree determinate e orientando una profonda riorganizzazione dell’habitat; contemporaneamente, esso sembra essere il punto visibilissimo e concreto di una gerarchia territoriale, il segno evidente di un potere guidato da una logica patrimoniale che, non esente da una certa mobilità – vedi i processi di edificazione e successivo abbandono attestati dalla documentazione monrealese – tendeva a proteggere e valorizzare i più significativi nuclei di ricchezza di un dominio.

Per queste considerazioni cfr.

  • L. Provero, L’Italia dei poteri locali. Secoli X-XII cit., in part. p. 65.
  • P. Guglielmotti, Sedi e funzioni civili, in Arti e storia nel Medioevo, II. Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, a cura di E. Castelnuovo, G. Sergi, Torino, Einaudi 2003, pp. 155-185:pp.155-157.
  • G. Sergi, La territorialità e l’assetto giurisdizionale e amministrativo dello spazio, in Uomo e spazio nell’alto medioevo cit., pp. 479-501.

 

Sul territorio governato dalla chiesa di Santa Maria Nuova, accanto a casalia e castella, il cartulario testimonia la presenza di altre forme – a volte effimere e temporanee – di insediamento: si tratta di una dozzina grotte abitate, la cui denominazione in gar, in unione ad un’antroponimo musulmano, indica chiaramente un’origine anteriore all’occupazione normanna dell’isola.

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«I normanni hanno ereditato dagli arabi un sistema insediativo basato sul trogloditismo sopratutto nel popolamento delle campagne. I microtoponimi che alludono a grotte, rintracciabili nelle carte o ancora attivi, conservano quasi sempre il nome del proprietario arabo»,

A. Messina, Le chiese rupestri cit., p. 15.

 

La maggior parte degli insediamenti trogloditici siciliani sono stati in effetti associati alla tradizione dell’ascetismo eremitico finendo col ricevere – con una generalizzazione spesso erronea –  l’etichetta di “basiliani”.

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L’unica chiesa rupestre rintracciata nella documentazione monrealese è una «ecclesiam que est prope Porta Gar filii Zedun» all’interno della divisa Haiarzeneti, per la quale è stata ipotizzata una comunità di arabi cristianizzati,

documento I.4

v. anche A. Messina, Le chiese rupestri cit., p. 72, alla nota 24.

 

Chiese rupestri di matrice orientale hanno certamente avuto un peso notevole nella storia monastica del Medioevo meridionale, ma ciò non esclude la parallela esistenza di comunità a carattere laico: basti pensare alle tre grosse città trogloditiche di Modica, Scicli e Ispica, nel versante sud-orientale dell’Isola, le cui famose cave rappresentano l’esempio più vistoso di un’architettura di sottrazione che nella roccia ritagliava spazi vitali.

Anche nel Val di Mazara si contano alcuni complessi, sebbene di entità inferiore: in provincia di Agrigento sul monte San Calogero15 e a Castellazzo di Camastra presso Naro16; sulla montagna di Sant’Angelo Muxaro il gruppo di abitazioni di Grotta Murata, di età bizantina e araba; presso Sciacca le grotte della contrada la Chiave e le cellette di San Calogero.

Per altri insediamenti rupestri della zona si rimanda al censimento – per ora ancora incompleto – compiuto da Uggeri, cfr.

G. Uggeri, Gli insediamenti rupestri medievali: problemi di metodo e prospettive di ricerca, in Archeologia Medievale, 1 (1974), pp. 195-230.

 

L’insediamento rupestre è una realtà consolidata anche nell’ambito delle ricerche archeologiche condotte nella zona della Monreale Survey, per la quale però manca un censimento sistematico dei siti.

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«L’indagine su questi insediamenti rupestri è purtroppo ai primi passi, preceduta spesso dagli studi di storia dell’arte medioevale, che hanno portato inevitabilmente ad una pericolosa distinzione tra grotte che valeva la pena salvaguardare e grotte senza affreschi e che pertanto si potevano impunemente abbandonare alla degradazione e alla distruzione. Decine di villaggi rupestri asportati dalle cave di pietra da taglio o obliterati dagli scarichi alle periferie dei centri moderni in fase di espansione edilizia ne rappresentano l'amaro bilancio di preziose testimonianze perdute per sempre»,

G. Uggeri, Gli insediamenti rupestri cit., p. 197.

 

 

 

Inoltre, sul territorio recensito nel rollo del 1182 ben due circoscrizioni sono nominate attraverso il toponimo gar: la divisa Gar e la divisa Garsuayb.

Non è chiaro se l’attribuzione all’intero distretto di un nome indicante una caverna sia indicativa della presenza, in queste aree, di ulteriori stanziamenti rupestri, anche se Nania ha riscontrato nella zona tra Poggio San Francesco e Ginestra – corrispondente alla divisa Gar – un addensamento di toponimi rievocanti realtà simili, come Garrone (grotta del Garrone), Carpineto e Garibizi, quest’ultimo ormai scomparso ma ancora esistente almeno sino al XVI secolo17.

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In ogni caso, la scelta ubicativa degli insediamenti in grotta si riallaccia da una parte a motivi di sicurezza e dall’altra, alla facilità con cui i declivi degli speroni potevano essere scavati con attrezzature semplici.

La pratica dello scavo come mezzo per ottenere ambienti da destinare ad abitazione è del resto verificabile in diverse zone subregionali italiane – ad esempio in alcune aree della Toscana – che presentano caratteristiche geologiche omogenee, con preferenza per i terreni tufacei: l’adattamento delle grotte a dimora non doveva dunque richiedere consistenti disponibilità di mezzi né l’uso di particolari tecniche edilize e ben si prestava a risolvere, nel modo più parsimonioso, le esigenze primarie e immediate di una comunità rurale18 .

Le necessità legate all’utilizzo delle grotte non si riducono, tra l’altro, al solo interesse abitativo: nella Sicilia di epoca normanno-sveva sono documentati anche l’uso a guisa di deposito o cantina, di recinto per gli animali o di ricovero, saltuario e temporaneo, legato alle necessità dell’attività agricola19.

Negli ultimi anni, l’archeologia delle strade è stata al centro di nuove riflessioni da parte della storia preindustriale, con obiettivi e approcci spesso molto diversi tra loro: dalla ricostruzione dei tracciati viarii condotta attraverso la cartografia degli insediamenti o dei manufatti allo studio della diffusione di una cultura del pellegrinaggio, non sono mancati contributi legati alla storia dell’economia e della società, che hanno affrontato linee di ricerca consone alla comprensione del commercio e degli orientamenti del potere nella definizione dello spazio medievale.

In questa direzione, lo studio sociale delle strade e l’analisi dei rapporti stabiliti tra strutture del potere territoriale e rete viaria costituiscono – anche nel caso di Monreale – elementi qualificanti per la comprensione dell’evoluzione e dei condizionamenti prospettati dalle forme insediative.

Se per la Sicilia – come giustamente ha sottolineato Lucia Arcifa – gli studi sulla viabilità si sono fin qui appuntati sulla rete viaria greca e romana, fortemente incentrati «sull’esame del dato itinerario e sul computo della distanza ancor più che sulla ricognizione del territorio»20, non sarà quindi infruttuoso tentare, con l’aiuto della documentazione offerta dal cartulario, una ricostruzione del sistema di collegamento esistente tra i centri maggiori, le campagne e gli insediamenti rurali facenti parte del dominio monrealese.

Si tratta di una ricognizione motivata anche dal recente riconoscimento di una certa autonomia delle percorrenze medievali, una capacità di strutturarsi e di modificarsi indipendente dai condizionamenti della preesistente rete stradale romana, che trova ampi riscontri nella fitta rete di collegamenti che emerge dall’analisi del rollum della chiesa di Santa Maria Nuova.

Il sistema viario che da Monreale si irradiava verso i grandi centri urbani di Palermo, Trapani, Mazara e Sciacca, strutturato in una sapiente gerarchia di percorsi che da una viabilità primaria esterna alle singole divise passava attraverso percorsi secondari a carattere locale finalizzati agli spostamenti da un casale all’altro, trova precisi riscontri nel diploma del 1182.

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La lettura del documento, nel quale colpisce la ricchezza di aggettivazione per i riferimenti alla strada, lascia infatti presagire una ricostruzione certamente più complessa del panorama schematico fornito sulla rete viaria siciliana da Edrisi.

I tre gruppi previsti da Tiziano Mannoni per il sistema stradale di età medievale – vie di lunga percorrenza tra centri maggiori non compresi all’interno dello stesso territorio, vie di collegamento tra centri abitati minori e vie di servizio funzionali all’attività del singolo sito abitato21 – sono infatti largamente rappresentati nel lungo documento e conseguentemente in quella zona della Sicilia su cui si estendeva il controllo dell’abbazia di Santa Maria Nuova: un ventaglio di strade che risulta solo in parte un adattamento passivo alle logiche ambientali, in quanto effettivamente inquadrabile in un sistema economico e insediativo condizionato dalla struttura assunta dai possedimenti della diocesi.

Gli assi principali del sistema, ben documentati fin dal XII secolo, erano la via per Mazara, che attraversava numerose divise monrealesi, e la via per Agrigento e Sciacca che collegava Corleone e Palermo.

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Il primo collegamento, che da Palermo conduceva a Mazara connettendo la costa meridionale della Sicilia a quella occidentale, era indubbiamente uno dei più rilevanti assi stradali su un territorio caratterizzato dalla presenza di numerosi centri abitati.

Nel rollo definita «publica via que ducit ad Mazariam», «viam publicam Mazariae» o più semplicemente «via Mazariae», è percorso documentato anche da Tommaso Fazello, che ne descrive la distanza in 70 miglia.

Computando la lunghezza del miglio siciliano nel XV secolo – 1.481 metri – il tragitto tra le due città era lungo circa 103 km.

La via, «utilizzando i toponimi attuali, inizia dalla porta Mazara nei pressi dell’Ospedale dei Bambini di Palermo, attraversa il fiume Oreto oggi al ponte della Grazia, ma nei tempi passati probabilmente attraversava l’Oreto al Ponte di Corleone, raggiunge il borgo Greco dove, nelle adiacenze, si trovava la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Successivamente si arrivava alla fontana Ambleri nei pressi di Villa Ciambra. Subito dopo si ha il Bivio della Valle del Fico, ossia della strada, ancora oggi regia trazzera, che conduce a Rebuttone, Piana, Santa Cristina, Corleone»,

G. Nania, Toponomastica cit., p. 184.

 

Altrettando rilevante era la strada per Agrigento – itinerario che mantenne un peso fondamentale per tutta l’età medievale, come testimonia la presenza lungo il percorso della fondazione ospedaliera di Sant’Agnese – che percorrendo la valle dell’Eleuterio si biforcava proseguendo da un lato, in direzione di Marineo e Corleone e dall’altro, di Sciacca e Agrigento: l’importanza del collegamento, per il quale è attestato anche un tracciato alternativo che passava ad est della Rocca Busambra seguendo la rotta di Cefalà e Vicari fino a Castronuovo, emerge dalle numerose citazioni delle fonti e dalla presenza di una serie cospicua di varianti, tra cui il collegamento diretto tra Palermo e Corleone  segnalato dal rollo.

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Seguendo la cartografia questo collegamento potrebbe coincidere con la Regia Trazzera n. 24, che partendo da Corleone seguiva l’attuale SS 118 sino al Cozzo San Severino e con tratto quasi rettilineo raggiungeva la parte occidentale di Pizzo Nicolosi immettendosi nella Regia Trazzera di Sant’Agata e seguendone il percorso sino ai confini del territorio di Santa Cristina Gela, per poi congiungersi con la via Mazarie.

 

Questa rete binaria, che collegava Palermo e Monreale a Iato, Corleone e Calatrasi, estendendosi parallelamente verso Mazara, Prizzi, Bisacquino e Sciacca, si intersecava con una numerosa serie di viottoli e percorsi alternativi, che giungevano ai singoli casali dell’arcidiocesi e da questi si dipartivano verso mulini, boschi, monti e valli: un fitto reticolo venoso di scorciatoie, traverse, sentieri e trazzere che formava una struttura polistellare.

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L’eterogeneità evidente nella differenza tra grandi e piccoli tragitti corrispondeva, in questo contesto, ad una diversità di origine e tradizione d’uso, in cui l’alta tendenza alla conservazione delle strade principali si accompagnava alla realizzazione di sentieri adatti ai nuovi insediamenti e all’incremento della circolazione di uomini e cose successiva all’XI secolo22. Per questa viabilità minore, i dati forniti dal testo consentono al momento solo ricostruzioni sommarie, a causa della scarsa fissità di certi percorsi che all’epoca esaminata non si esitava a deviare o abbandonare.

Colpisce, in questa “area di strade”23, il frequente nesso dei percorsi con le strutture castrali presenti sul territorio. La convinzione di una stretta e quasi necessaria connessione fra castelli e strade appare piuttosto radicata nella storiografia italiana quasi un dato d’obbligo meccanicamente ripetuto e l’esistenza di castelli stradali con funzioni di controllo è innegabile24.

In realtà però, come conferma anche il documento analizzato, quello fra il castello e la strada è un rapporto normalmente indiretto, un fatto secondario rispetto alla reale funzione della fortificazione sul dominato: soltanto le zone di passaggio obbligato impongono infatti la scelta di percorsi precisi, e solo in questo caso il rapporto castello-strada assumerebbe una effettiva valenza.

Sul territorio dell’arcivescovato di Monreale la rete della viabilità appare piuttosto condizionata dagli elementi topografici – l’andamento orografico e idrografico – e dalla distribuzione dei centri abitati; tanto più che i tracciati stradali medievali non sembrano essere determinati da una scelta progettuale, ma piuttosto dal risultato di una serie di eventi naturali, quali il letto asciutto di un fiume, una via segnata dal fuoco o il sentiero creato dagli animali: piste che, continuamente battute dall’uomo, col passare del tempo e con pochi e opportuni aggiustamenti finivano col diventare vere e proprie vie di comunicazione.

Progettualità invece si incontra nel caso dei punti di attraversamento, caratterizzati dalla presenza di un ponte o di un guado25.

 

 

Per il territorio indagato, i fiumi la cui portata poneva sicuramente dei problemi erano il Belice destro e sinistro, il Fiume Freddo, lo Jato, il Sosio e il fiume della Mendola.

Nel rollo si rilevano due punti di attraversamento caratterizzati dalla presenza di un ponte: il gadir Seuden tra le divise RahalBensehel e Menzelabdella, e il transitum Kalatatrasi, anche noto come gadir Sertet (ponte di Calatrasi o ponte del Diavolo).

L’esiguità dei ponti citati, che non esclude comunque l’esistenza di altre strutture similari, è però bilanciata dalla presenza di numerosi guadi, uno dei quali – il vadum fluminis Felu nella divisa Desise – era ubicato lungo l’importante via Mazarie.

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Altro elemento critico lungo un percoso poteva essere rappresentato da un tratto eccessivamente ripido26, per il quale si ovviava con la costruzione di scalae realizzate attraverso gradini scavati nella roccia, con pedate abbastanza ampie da consentire il transito anche agli animali da soma.

Il rollo cita una scala Mertu e una scala Veteris Briace; è noto tuttavia che il toponimo Dargia o Targia, frequentemente attestato nel documento, identifica un percorso ancora oggi noto come Scala della Targia che fino al 1838 conduceva a San Giuseppe Iato27.

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Si ritiene normalmente che la conquista normanna nella seconda metà dell’XI secolo non abbia influito sul quadro generale del popolamento.

Il liber attesta in effetti una disposizione territoriale costruita sul sistema della “terra” – coincidente col grande villaggio, spesso fortificato – dominante su un distretto popolato di casali, cui farebbe riferimento il termine divisa.

I conquistatori avrebbero quindi sovrapposto il proprio apparato su una preesistente organizzazione araba, confinando la popolazione vinta nei casolari di pianura o collina e destinando le terre alle gerarchie feudali. I dati archeologici coincidono con quelli storici nell’indicare che lo sforzo accentratore della corona e il conflitto con la popolazione musulmana hanno esito definitivo in epoca sveva, quando si possono contare decine di abbandoni non solo tra i siti rurali aperti, ma anche tra i numerosi siti d’altura.


Il risultato finale saranno le campagne deserte e il raggruppamento della popolazione in pochi, grandi borghi accentrati, abitati da borghesi e braccianti.

 

 

 

1  H. Bresc, La casa rurale nella Sicilia Medievale. Massaria, casale e terra, in Archeologia Medievale, 7 (1980), pp. 375-382.

2 Cfr. S. Tramontana, La casa contadina nella Sicilia normanna, in Quaderni Medievali, 40 (1995), pp. 8-20:9.

3 F. Barone, Islām in Sicilia nel XII e XIII secolo: ortoprassi, scienze religiose e tasawwuf, in Incontri mediterranei. Rivista semestrale di storia e cultura, 6 (2003) 2, pp. 104-115:105.

4 Su questa istituzione v. G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi 1996, pp. 29-34.

5 Palermo a.m. 6666, eg. 573 (1178) Maggio Ind. XI; documento edito da S. Cusa, I diplomi greci e arabi di Sicilia cit., pp. 134-179 e regestato in C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di S. Maria la Nuova cit., doc. 22, pp. 14-15.

6 Proibizione estesa anche ai borgesi, cfr. I. Peri, Villani e cavalieri cit., p. 27.

7 Cfr. P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino, Einaudi 1995, p. 109. L’osservazione dello studioso va però controbilanciata dalle considerazioni di Massimo Quaini, il quale a proposito del problema dei villaggi abbandonati giustamente ha scritto: «non ha molto significato se lo si isola dal suo naturale contesto: il popolamento, le strutture agrarie, i rapporti città-campagna», M. Quaini, Geografia storica o storia sociale del popolamento rurale?, in Quaderni Storici, 24 (1973), pp. 691-744:714.

8 Cfr. H. Bresc, L’incastellamento in Sicilia cit., p. 220.

9 Riferimenti in: F. Maurici, Casali, castelli e città in Sicilia, in Nuove Effemeridi, a. VII, 28 (1994), pp. 65-74:67.

10 E di questi solo Bisacquino e Giuliana sopravvivono, mentre i rimanenti cinque spariscono definitivamente nel corso del XIV secolo.

11 F. Maurici, Il vocabolario cit., pp. 27-28.

12 «Sotto i musulmani questo nome di kalat si ha sempre aggiunto a qualche luogo fortificato dalla natura e dall’uomo, come sono appunto nel territorio stesso della chiesa di Monreale i luoghi indicati con i nomi di Kalatrasi, Kalatabusamar, Kalatalì, Kalatamauru», V. Di Giovanni, I casali esistenti nel secolo XII nel territorio della chiesa di Monreale cit., pp. 441-442.

13 F. Maurici, Il vocabolario cit., p. 37.

14 H. Bresc, La casa rurale cit.

15 Per il sito v. G. Navarra, Città sicane, sicule e greche nella zona di Gela, Palermo, Andò 1964.

16 Cfr. S. Pitruzzella, Storia di Naro, Palermo 1938, p. 46 sgg.

17 Cfr. G. Nania, Toponomastica cit., p. 20.

18 Cfr. S. Tramontana, La casa contadina cit., pp. 14-15.

19 Cfr. H. Bresc, La casa rurale cit.

20 L. Arcifa, Viabilità e politica stradale in Sicilia (secc. XI-XIII) cit., pp. 27-33:27.

21 cfr. T. Mannoni, Gli aspetti archeologici della ricerca sulle strade medievali, in Un’area di strada: l’Emilia occidentale nel Medioevo. Ricerche storiche e riflessioni metodologiche, a cura di R. Greci, Bologna, Clueb 2000 (Itinerari medievali), pp. 13-18.

22 La stessa situazione si incontra anche nel Nord Italia, cfr. G. Sergi, Monasteri sulle strade del potere. Progetti di intervento sul paesaggio politico medievale fra le Alpi e la Pianura, in Quaderni Storici, 61 (1986), pp. 33-56:33.

23 Per il termine, coniato da Giuseppe Sergi per definire una via composta frequentemente da una maglia di strade, non riconducibili ad un unico percorso, cfr. G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a Torino fra X e XIII secolo, Napoli, Liguori 1981 (Nuovo Medioevo, 20).

24 Cfr. T. Szabò, Castelli e viabilità nell’Italia del medioevo, in Castrum 5, Madrid-Roma 1999, pp. 455-466.

25 L’argomento è stato affrontato in modo esaustivo da T. Szabò, Costruzioni di ponti e di strade in Italia fra il IX e il XIV secolo. La trasformazione delle strutture organizzative, in Ars et Ratio. Dalla torre di Babele al Ponte di Rialto, a cura di J.-C. Maire Viguer, A. Paravicini, Palermo, Sellerio 1990 (Prisma, 122), pp. 73-91.

26 Sembra che, esaminando i tracciati di antiche regie trazzere, ci si trovi in presenza di pendenze del 20-25%, che in alcuni punti raggiungono limiti del 35%, cfr. G. Nania, Toponomastica cit., p. 172.

27 Ulteriori particolari sulla località si trovano in G. Nania, Op.cit., p. 182 e 184-185.