Le forme dell’insediamento
Se infatti le attività connesse all’agricoltura e all’allevamento manifestano strette relazioni con la distribuzione demografica rurale, la toponomastica si rivela ancora una volta lo strumento adeguato per rintracciare dettagli e caratteristiche significative di forme, funzioni e modi di stanziarsi – in maniera temporanea o permanente – sul suolo siciliano: nelle parole di Philip Jones,
La storia dell’insediamento, e già soltanto l’analisi del vocabolario legato all’habitat, rappresentano dunque una traccia importante per comprendere l’assetto complessivo del dominio di Monreale.
Questa grande riserva musulmana, sorvegliata e stretta da una catena di borghi fortificati e castelli, alla fine del XII secolo sembrava essere un frammento di passato ormai pericolosamente in bilico, una residua isola eterodossa la cui definitiva acculturazione, demandata ai monaci di Monreale, doveva essere considerata solo questione di tempo.
Sul territorio governato da Monreale, assenti le città, si contano sostanzialmente due tipologie di insediamento in probabile rapporto gerarchico: siti forti di altura o incastellati – come Corleone – e siti aperti di collina o pianura, generalmente distribuiti attorno ad un casale.
La maggior parte degli stanziamenti, spesso ancora oggi abitati o danneggiati da attività costruttive recenti, rende la lettura dei dati archeologici non priva di difficoltà, sebbene negli ultimi anni le sempre più numerose ricognizioni di superficie abbiano dimostrato la tendenza verso quella che sembrerebbe una concentrazione dell’habitat sul luogo di precedenti insediamenti tardo-romani e bizantini di pianura e collina. Una terza forma insediativa, più difficile da rintracciare sul terreno ma largamente attestata dalla documentazione trascritta nel liber, è costituita dagli stanziamenti rupestri.
L’assetto e l’entità dell’abitato sparso – di questi casali ereditati dagli arabi che diverranno masserie instabili «espressione di una società latifondista orientata verso i mercati internazionali del grano»1 – appaiono ancora oscuri.
Nella documentazione monrealese la parola casale e i suoi corrispondenti arabi designano una varietà di tipologia insediativa relativamente sfumata ma generalmente caratterizzata dalla struttura accentrata e dalla mancanza di mura o altri elementi di fortificazione.
Prima del XII secolo, tale forma di stanziamento non viene documentata nelle fonti scritte se non in forma indiretta o ambigua e anche dal punto di vista archeologico le conoscenze sul casale siciliano restano piuttosto limitate, tanto da apparire ancora sfuggente l’evoluzione e il passaggio dall’epoca pienamente musulmana a quella normanna. Tuttavia l’abbondanza degli abitati intercalari testimoniata dalla diplomatica dei secoli esaminati e una toponomastica ricchissima di nomi in rahal e manzil indicherebbero una continuità topografica e strutturale priva di rotture.
Nessun documento fornisce notizie chiare sull’impianto geometrico del casale che sembra essere collocato, di frequente, sui dossi, i promontori limitati dai valloni o lungo i crinali dei colli2, riflettendo un’organizzazione del territorio condizionata da esigenze di sopravvivenza e difesa.
Ipotesi ricostruttive sul castello di Calathamet Le dimensioni dell’insediamento variavano: da quelle esigue – luoghi abitati da una sola famiglia di coltivatori – alle unità abitative di oltre cento villani e una media di trenta nuclei familiari. Il valore intermedio però resta modesto, attestandosi sulla decina di famiglie per casale. Chiarissima sembra invece essere la subordinazione giuridica del casale ad un centro eminente – circondato da mura, fortificato e talvolta munito di castello – a cui era legato da vincoli amministrativi e giudiziari: ciò che caratterizzerebbe il casale siciliano sarebbero dunque lo statuto giuridicamente inferiore e la posizione topografica in siti collinari aperti, al massimo cinti da fossati.
Resta quindi ancora valida la definizione del casale d’epoca prenormanna fornita da Lizier oltre un secolo fa:
Inevitabilmente però, la maggioranza dei coloni apparteneva al ceppo arabofono: «un mosaico etnico di berberi, persiani, arabi, mahgrebini, andalusi»3 soggiogati dalla conquista normanna e ricaduti sotto un istituto analogo a quello islamico della dhimma, che in passato aveva garantito alle comunità religiose ebree e cristiane il riconoscimento della libertà di culto, della persona giuridica e di una serie di pubbliche libertà previo pagamento di un’apposita imposta nota come jizya4.
È comunque più probabile che questa fosse una condizione offerta ai cittadini, e che invece la popolazione contadina fosse ridotta in uno stato semi-servile di villanaggio con forme ascrittizie di vincolo alla terra ex origine o ratione tenimenti e la possibilità di riscattarsi.
La formula di ascrizione “intuitu personarum” comportava il divieto, per gli abitanti del casale, di allontanarsi da esso: non erano tuttavia infrequenti gli spostamenti da un centro all’altro quando non addirittura le fughe. I dipendenti respectu tenimentorum potevano invece accedere agli ordini sacri anche senza l’autorizzazione dei domini, con l’obbligo però di restituire a questi ultimi la terra avuta in concessione dal momento che se ne allontanavano. Questa seconda opzione appare tuttavia rara, mentre la documentazione di epoca normanna mostra l’onnipresenza della forma di villanaggio vincolante, in cui l’uomo è dato in donazione regolarmente insieme al casale dove abita e alla terra che coltiva, allo scopo di esercitare un controllo simultaneo sui due fattori complementari della produzione.
La caratteristica del nuovo servaggio, che per lo più non alterava formalmente lo status giuridico del contadino – almeno nella fase iniziale del nuovo tipo di subordinazione – ma menomava le sue già limitate capacità di agire come uomo libero, era il rapporto di subordinazione ereditaria, «che faceva perno, contemporaneamente, sulla dipendenza personale e su quella reale».
Il legame ereditario alla terra e la corresponsione della captazione religiosa in denaro e in terraggio, che non venivano riscossi dal signore feudale per conto dell’amministrazione reale ma esclusivamente per sé stesso, si traducevano dunque per l’ente ecclesiastico in una fondamentale fonte di ingressi fiscali tanto in denaro che in prodotti agricoli. Dei circa 160 casali esistenti nei secoli XI-XII nel territorio dell’attuale provincia di Palermo, il grosso di quelli documentati si concentra nell’area del dominio monrealese.
Nel complesso, sembra quindi che i casali appartenenti alle divise di Corleone e Calatrasi – sicuramente le più popolose del dominio monrealese – fossero abitati da oltre un migliaio di famiglie di contadini.
La denominazione in Rahal o Mensil dei casali – cui si aggiunge di solito un’ulteriore voce, che connette l’abitato al luogo specificandolo attraverso elementi attinti al mondo vegetale e animale o con precisi riferimenti alle colture che vi si praticavano – è il segno evidentissimo della loro preesistenza in epoca araba. In alcuni casi si dispone inoltre di una documentazione letteraria o d’archivio precedente la fondazione del monastero di Monreale. Tuttavia, non sempre questi elementi sono stati sufficienti per rintracciare l’ubicazione effettiva del casale sul territorio controllato dall’arcidiocesi di Monreale: nomi corrotti da una cattiva trasmissione o inesorabilmente mutati e distanze inesatte hanno in effetti creato non poche difficoltà agli studiosi nell’identificazione e posizionamento dei siti.
Come ha rilevato Philip Jones,
Sembra che la tendenza generale del movimento espansivo nelle campagne medievali europee abbia raggiunto il suo picco tra il tardo XI e l’inizio del XIII secolo e che poi, intorno al 1300, il crescente squilibrio fra sviluppo demografico e sviluppo economico abbia invece provocato il declino della produttività e una crescente difficoltà nel mantenere il livello della sussistenza, i cui sintomi si sarebbero manifestati con l’abbandono dei terreni peggiori, l’aumento del tasso di mortalità fra i ceti più poveri e il ribasso dei prezzi agricoli, anzitutto quello del grano.
Ma la realtà dello spopolamento dei casali, malgrado l’obbligo di residenza per i villani6, sembra essersi manifestata precocemente nella zona occidentale dell’isola, nonostante ad una effettiva desertificazione di numerosi siti fra XII e XIII secolo faccia da contrappunto la lunga persistenza dei toponimi nell’uso documentario: da qui la difficoltà nell’indicare con precisione – sulla base dei soli riferimenti d’archivio – il momento dell’abbandono o del passaggio definitivo al latifondo disabitato.
L’andamento generale degli abbandoni e dei ritorni segue in ogni caso sviluppi problematici, sui quali sarebbe possibile fare maggiore luce solo disponendo di una più cospicua documentazione e minuziose analisi archeologiche. Sicuramente la Sicilia medievale presentava stanziamenti rurali fragili, spesso provvisori e soggetti a mutamenti nella dimensione e nella tipologia, a causa del lavoro stagionale condotto sui campi aperti e i pascoli, che finiva col generare una dinamica fatta di spostamenti ed emigrazioni da un casale all’altro e da centri più piccoli verso i borghi fortificati: una mobilità circolare tra contadi che costringe a rivedere i classici schemi storiografici sulle migrazioni interne, finora esclusivamente inscritte all’interno del flusso unidirezionale campagna-città o dalle aree depresse – ad esempio dalla montagna – alle aree economicamente vincenti.
La situazione è stata magistralmente sintetizzata da Ferdinando Maurici:
I termini per definire il fortilizio – ubicato in siti elevati e naturalmente difesi – sono molteplici: si va dai più frequenti castrum e castellum al kalat di origine araba, fino alla turris e alla petra, spesso utilizzati indiscriminatamente per indicare una stessa realtà materiale. L’ambiguità delle fonti medievali siciliane nell’utilizzo parallelo di castrum e castellum è stata oggetto dei numerosi studi proposti da Ferdinando Maurici, il quale giustamente ha ricordato come entrambi servano indicare, tra XI e XII secolo, sia l’abitato munito e giuridicamente eminente – pur se inferiore per rango alla civitas – sia la fortificazione che lo sorveglia e lo protegge o ancora, le rare fortezze isolate nella campagna. Pare quindi che nelle tre lingue della cancelleria normanna e degli scrittori dell’epoca, non diversamente da quanto succedeva nella parte continentale del Regnum, «gli stessi termini usati solitamente in relazione a strutture e insediamenti fortificati presentino significati spesso omogenei e non sempre decifrabili con sicurezza»11. L’indeterminatezza permane in epoca sveva, anche se da Federico II in poi si accentua una tendenza alla semplificazione, già avviatasi con la progressiva marginalizzazione dell’arabo nella pratica cancelleresca che troverà compimento solo alla fine del XIV secolo, quando verrà invece generalizzato l’uso documentario e letterario del vocabolo castrum e decadrà l’antico rivale latino castellum. È comunque probabile che l’uso incerto dei due termini dipenda da una mancata coscienza categoriale nella cultura del tempo, ma anche dalla possibile comprensenza – nel medesimo manufatto – di funzioni appartenenti ad entrambe le tipologie.
Resti del castello di Iato
Se i toponimi in kalat indicano sempre una posizione naturalmente forte, qualificando quindi in primo luogo l’aspetto protetto di un sito12, più sfumato è invece il vocabolo petra che, secondo Elizabeth Lesnes, potrebbe indicare una piccola rupe isolata, un sito roccioso o un semplice feudo spopolato:
Difficoltà si incontrano anche nell’interpretazione del termine turris, che indicherebbe «tanto la torre di un castello o di una cinta urbana che quella isolata o posta a guardia di un casale o di un complesso di domus»13 ma che Henri Bresc ha definito, per la Sicilia medievale, «poco più di una casa, con la fiskia o gebbia, le botti, il palmento scavato nella roccia»14. In effetti – fermo restando che ricerche su questo tipo di dimore fortificate vadano affrontate con cautela, evitando di cadere in anacronismi e generalizzazioni – nella zona e per il periodo in esame la necessità di difesa e protezione contro eventuali aggressioni non sembrano essere condizionanti, come invece lo diventeranno a partire dal XIV secolo, ed è quindi probabile che le torri attestate nel monrealese indichino robuste case di campagna, punti di appoggio e controllo ubicate nei pressi di piccoli fondi, orti e vigne.
Resta però un’ambiguità di fondo, legata anche alla funzione di queste fortificazioni per le quali, tra l’altro, non sembra possibile rintracciare una tipologia costruttiva specifica e di conseguenza, considerare in unico blocco il fenomeno dell’incastellamento sul territorio esaminato.
Sicuramente il castello dell’XI secolo, e specialmente nel Mezzogiorno, non rispose che in parte alla necessità di difesa mentre certe forme di insediamento, che potrebbero essere state originate da questa urgenza, furono probabilmente tenute in vita dalle influenze non meno potenti di abitudini sociali, del sistema agricolo e della ripartizione dei terreni. In questo senso il castello restava l’elemento forte nel paesaggio, capace di polarizzare uno spazio giurisdizionale dipendente e possibilmente originato da istanze di natura economica connesse allo sfruttamento intensivo della terra e al ripopolamento delle zone deserte. Al castrum siciliano si può quindi attribuire la capacità di “costruire” il territorio intorno a sé, disegnando una geografia politica agganciata ad aree determinate e orientando una profonda riorganizzazione dell’habitat; contemporaneamente, esso sembra essere il punto visibilissimo e concreto di una gerarchia territoriale, il segno evidente di un potere guidato da una logica patrimoniale che, non esente da una certa mobilità – vedi i processi di edificazione e successivo abbandono attestati dalla documentazione monrealese – tendeva a proteggere e valorizzare i più significativi nuclei di ricchezza di un dominio.
Anche nel Val di Mazara si contano alcuni complessi, sebbene di entità inferiore: in provincia di Agrigento sul monte San Calogero15 e a Castellazzo di Camastra presso Naro16; sulla montagna di Sant’Angelo Muxaro il gruppo di abitazioni di Grotta Murata, di età bizantina e araba; presso Sciacca le grotte della contrada la Chiave e le cellette di San Calogero.
In ogni caso, la scelta ubicativa degli insediamenti in grotta si riallaccia da una parte a motivi di sicurezza e dall’altra, alla facilità con cui i declivi degli speroni potevano essere scavati con attrezzature semplici. La pratica dello scavo come mezzo per ottenere ambienti da destinare ad abitazione è del resto verificabile in diverse zone subregionali italiane – ad esempio in alcune aree della Toscana – che presentano caratteristiche geologiche omogenee, con preferenza per i terreni tufacei: l’adattamento delle grotte a dimora non doveva dunque richiedere consistenti disponibilità di mezzi né l’uso di particolari tecniche edilize e ben si prestava a risolvere, nel modo più parsimonioso, le esigenze primarie e immediate di una comunità rurale18 . Le necessità legate all’utilizzo delle grotte non si riducono, tra l’altro, al solo interesse abitativo: nella Sicilia di epoca normanno-sveva sono documentati anche l’uso a guisa di deposito o cantina, di recinto per gli animali o di ricovero, saltuario e temporaneo, legato alle necessità dell’attività agricola19. Negli ultimi anni, l’archeologia delle strade è stata al centro di nuove riflessioni da parte della storia preindustriale, con obiettivi e approcci spesso molto diversi tra loro: dalla ricostruzione dei tracciati viarii condotta attraverso la cartografia degli insediamenti o dei manufatti allo studio della diffusione di una cultura del pellegrinaggio, non sono mancati contributi legati alla storia dell’economia e della società, che hanno affrontato linee di ricerca consone alla comprensione del commercio e degli orientamenti del potere nella definizione dello spazio medievale. In questa direzione, lo studio sociale delle strade e l’analisi dei rapporti stabiliti tra strutture del potere territoriale e rete viaria costituiscono – anche nel caso di Monreale – elementi qualificanti per la comprensione dell’evoluzione e dei condizionamenti prospettati dalle forme insediative. Se per la Sicilia – come giustamente ha sottolineato Lucia Arcifa – gli studi sulla viabilità si sono fin qui appuntati sulla rete viaria greca e romana, fortemente incentrati «sull’esame del dato itinerario e sul computo della distanza ancor più che sulla ricognizione del territorio»20, non sarà quindi infruttuoso tentare, con l’aiuto della documentazione offerta dal cartulario, una ricostruzione del sistema di collegamento esistente tra i centri maggiori, le campagne e gli insediamenti rurali facenti parte del dominio monrealese. Si tratta di una ricognizione motivata anche dal recente riconoscimento di una certa autonomia delle percorrenze medievali, una capacità di strutturarsi e di modificarsi indipendente dai condizionamenti della preesistente rete stradale romana, che trova ampi riscontri nella fitta rete di collegamenti che emerge dall’analisi del rollum della chiesa di Santa Maria Nuova.
La lettura del documento, nel quale colpisce la ricchezza di aggettivazione per i riferimenti alla strada, lascia infatti presagire una ricostruzione certamente più complessa del panorama schematico fornito sulla rete viaria siciliana da Edrisi. I tre gruppi previsti da Tiziano Mannoni per il sistema stradale di età medievale – vie di lunga percorrenza tra centri maggiori non compresi all’interno dello stesso territorio, vie di collegamento tra centri abitati minori e vie di servizio funzionali all’attività del singolo sito abitato21 – sono infatti largamente rappresentati nel lungo documento e conseguentemente in quella zona della Sicilia su cui si estendeva il controllo dell’abbazia di Santa Maria Nuova: un ventaglio di strade che risulta solo in parte un adattamento passivo alle logiche ambientali, in quanto effettivamente inquadrabile in un sistema economico e insediativo condizionato dalla struttura assunta dai possedimenti della diocesi. Il primo collegamento, che da Palermo conduceva a Mazara connettendo la costa meridionale della Sicilia a quella occidentale, era indubbiamente uno dei più rilevanti assi stradali su un territorio caratterizzato dalla presenza di numerosi centri abitati.
L’eterogeneità evidente nella differenza tra grandi e piccoli tragitti corrispondeva, in questo contesto, ad una diversità di origine e tradizione d’uso, in cui l’alta tendenza alla conservazione delle strade principali si accompagnava alla realizzazione di sentieri adatti ai nuovi insediamenti e all’incremento della circolazione di uomini e cose successiva all’XI secolo22. Per questa viabilità minore, i dati forniti dal testo consentono al momento solo ricostruzioni sommarie, a causa della scarsa fissità di certi percorsi che all’epoca esaminata non si esitava a deviare o abbandonare. Colpisce, in questa “area di strade”23, il frequente nesso dei percorsi con le strutture castrali presenti sul territorio. La convinzione di una stretta e quasi necessaria connessione fra castelli e strade appare piuttosto radicata nella storiografia italiana – quasi un dato d’obbligo meccanicamente ripetuto – e l’esistenza di castelli stradali con funzioni di controllo è innegabile24. In realtà però, come conferma anche il documento analizzato, quello fra il castello e la strada è un rapporto normalmente indiretto, un fatto secondario rispetto alla reale funzione della fortificazione sul dominato: soltanto le zone di passaggio obbligato impongono infatti la scelta di percorsi precisi, e solo in questo caso il rapporto castello-strada assumerebbe una effettiva valenza. Sul territorio dell’arcivescovato di Monreale la rete della viabilità appare piuttosto condizionata dagli elementi topografici – l’andamento orografico e idrografico – e dalla distribuzione dei centri abitati; tanto più che i tracciati stradali medievali non sembrano essere determinati da una scelta progettuale, ma piuttosto dal risultato di una serie di eventi naturali, quali il letto asciutto di un fiume, una via segnata dal fuoco o il sentiero creato dagli animali: piste che, continuamente battute dall’uomo, col passare del tempo e con pochi e opportuni aggiustamenti finivano col diventare vere e proprie vie di comunicazione. Progettualità invece si incontra nel caso dei punti di attraversamento, caratterizzati dalla presenza di un ponte o di un guado25.
Altro elemento critico lungo un percoso poteva essere rappresentato da un tratto eccessivamente ripido26, per il quale si ovviava con la costruzione di scalae realizzate attraverso gradini scavati nella roccia, con pedate abbastanza ampie da consentire il transito anche agli animali da soma.
Si ritiene normalmente che la conquista normanna nella seconda metà dell’XI secolo non abbia influito sul quadro generale del popolamento. Il liber attesta in effetti una disposizione territoriale costruita sul sistema della “terra” – coincidente col grande villaggio, spesso fortificato – dominante su un distretto popolato di casali, cui farebbe riferimento il termine divisa. I conquistatori avrebbero quindi sovrapposto il proprio apparato su una preesistente organizzazione araba, confinando la popolazione vinta nei casolari di pianura o collina e destinando le terre alle gerarchie feudali. I dati archeologici coincidono con quelli storici nell’indicare che lo sforzo accentratore della corona e il conflitto con la popolazione musulmana hanno esito definitivo in epoca sveva, quando si possono contare decine di abbandoni non solo tra i siti rurali aperti, ma anche tra i numerosi siti d’altura.
Il risultato finale saranno le campagne deserte e il raggruppamento della popolazione in pochi, grandi borghi accentrati, abitati da borghesi e braccianti.
1 H. Bresc, La casa rurale nella Sicilia Medievale. Massaria, casale e terra, in Archeologia Medievale, 7 (1980), pp. 375-382. 2 Cfr. S. Tramontana, La casa contadina nella Sicilia normanna, in Quaderni Medievali, 40 (1995), pp. 8-20:9. 3 F. Barone, Islām in Sicilia nel XII e XIII secolo: ortoprassi, scienze religiose e tasawwuf, in Incontri mediterranei. Rivista semestrale di storia e cultura, 6 (2003) 2, pp. 104-115:105. 4 Su questa istituzione v. G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi 1996, pp. 29-34. 5 Palermo a.m. 6666, eg. 573 (1178) Maggio Ind. XI; documento edito da S. Cusa, I diplomi greci e arabi di Sicilia cit., pp. 134-179 e regestato in C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di S. Maria la Nuova cit., doc. 22, pp. 14-15. 6 Proibizione estesa anche ai borgesi, cfr. I. Peri, Villani e cavalieri cit., p. 27. 7 Cfr. P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino, Einaudi 1995, p. 109. L’osservazione dello studioso va però controbilanciata dalle considerazioni di Massimo Quaini, il quale a proposito del problema dei villaggi abbandonati giustamente ha scritto: «non ha molto significato se lo si isola dal suo naturale contesto: il popolamento, le strutture agrarie, i rapporti città-campagna», M. Quaini, Geografia storica o storia sociale del popolamento rurale?, in Quaderni Storici, 24 (1973), pp. 691-744:714. 8 Cfr. H. Bresc, L’incastellamento in Sicilia cit., p. 220. 9 Riferimenti in: F. Maurici, Casali, castelli e città in Sicilia, in Nuove Effemeridi, a. VII, 28 (1994), pp. 65-74:67. 10 E di questi solo Bisacquino e Giuliana sopravvivono, mentre i rimanenti cinque spariscono definitivamente nel corso del XIV secolo. 11 F. Maurici, Il vocabolario cit., pp. 27-28. 12 «Sotto i musulmani questo nome di kalat si ha sempre aggiunto a qualche luogo fortificato dalla natura e dall’uomo, come sono appunto nel territorio stesso della chiesa di Monreale i luoghi indicati con i nomi di Kalatrasi, Kalatabusamar, Kalatalì, Kalatamauru», V. Di Giovanni, I casali esistenti nel secolo XII nel territorio della chiesa di Monreale cit., pp. 441-442. 13 F. Maurici, Il vocabolario cit., p. 37. 14 H. Bresc, La casa rurale cit. 15 Per il sito v. G. Navarra, Città sicane, sicule e greche nella zona di Gela, Palermo, Andò 1964. 16 Cfr. S. Pitruzzella, Storia di Naro, Palermo 1938, p. 46 sgg. 17 Cfr. G. Nania, Toponomastica cit., p. 20. 18 Cfr. S. Tramontana, La casa contadina cit., pp. 14-15. 19 Cfr. H. Bresc, La casa rurale cit. 20 L. Arcifa, Viabilità e politica stradale in Sicilia (secc. XI-XIII) cit., pp. 27-33:27. 21 cfr. T. Mannoni, Gli aspetti archeologici della ricerca sulle strade medievali, in Un’area di strada: l’Emilia occidentale nel Medioevo. Ricerche storiche e riflessioni metodologiche, a cura di R. Greci, Bologna, Clueb 2000 (Itinerari medievali), pp. 13-18. 22 La stessa situazione si incontra anche nel Nord Italia, cfr. G. Sergi, Monasteri sulle strade del potere. Progetti di intervento sul paesaggio politico medievale fra le Alpi e la Pianura, in Quaderni Storici, 61 (1986), pp. 33-56:33. 23 Per il termine, coniato da Giuseppe Sergi per definire una via composta frequentemente da una maglia di strade, non riconducibili ad un unico percorso, cfr. G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a Torino fra X e XIII secolo, Napoli, Liguori 1981 (Nuovo Medioevo, 20). 24 Cfr. T. Szabò, Castelli e viabilità nell’Italia del medioevo, in Castrum 5, Madrid-Roma 1999, pp. 455-466. 25 L’argomento è stato affrontato in modo esaustivo da T. Szabò, Costruzioni di ponti e di strade in Italia fra il IX e il XIV secolo. La trasformazione delle strutture organizzative, in Ars et Ratio. Dalla torre di Babele al Ponte di Rialto, a cura di J.-C. Maire Viguer, A. Paravicini, Palermo, Sellerio 1990 (Prisma, 122), pp. 73-91. 26 Sembra che, esaminando i tracciati di antiche regie trazzere, ci si trovi in presenza di pendenze del 20-25%, che in alcuni punti raggiungono limiti del 35%, cfr. G. Nania, Toponomastica cit., p. 172. 27 Ulteriori particolari sulla località si trovano in G. Nania, Op.cit., p. 182 e 184-185. |