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L’avvento della dinastia sveva e la politica di Federico II

Guglielmo II fu il vertice – e l’eclissi – della storia normanna in Sicilia. Il ventennio del suo regno era stato contraddistinto da processi omologanti di occidentalizzazione, sia nella gestione del governo e dei rapporti di potere che nell’organizzazione della società, col prevalere a corte del partito ecclesiastico e baronale su quello dei funzionari, andando incontro per questa strada «alla piena e definitiva immissione del Mezzogiorno d’Italia nel contesto europeo»1.

Per Monreale, Guglielmo era stato un regio protettore, il promotore di un potere territoriale esteso e forte nelle sue componenti sociali, economiche e giuridiche. Scomparso lui, la storia dell’arcidiocesi, inevitabilmente, era destinata a mutare destino. 

 

 

 

 

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Con la morte di Guglielmo iniziava infatti per il Mezzogiorno un periodo di grande incertezza politica, destinato a protrarsi per circa un trentennio, fino a quando cioè Federico II non prendeva saldamente in pugno le sorti del regno. L’ultimo sovrano della dinastia normanna degli Altavilla moriva senza lasciare eredi diretti, per cui la successione sarebbe spettata a sua zia Costanza, figlia di Ruggero II e moglie del futuro Imperatore tedesco Enrico VI di Hohenstaufen.

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Ma la prospettiva di un assoggettamento del Regno all’Impero faceva nascere resistenze fortissime all’interno del baronaggio e soprattutto delle popolazioni cittadine, che contrapponevano al pretendente tedesco un candidato nazionale nella persona di Tancredi conte di Lecce e discendente, per parte paterna, di Ruggero II: occasione in cui l’atteggiamento del Papa e dei baroni, entrambi preoccupati delle conseguenze di un’estensione del potere imperiale al di là dei territori tedeschi e dell’Italia settentrionale anche sul Meridione, confluiva nella più ampia questione siciliana, ovvero nell’interminabile disputa che, dalla fine del XII all’inizio del XVI, avrebbe viste impegnate su fronti opposti le grandi forze autoritarie dell’Occidente medievale.

L'Incipit del Liber ad honorem Augusti

Nel suo Liber ad honorem Augusti, Pietro da Eboli mette in evidenza il rapporto simbiotico tra l’elemento germanico rappresentato da Enrico VI e quello normanno, incarnato da Costanza d’Altavilla, come la necessaria prosecuzione della corona normanna nell’Italia Meridionale.

In questo senso l’autore delinea una descrizione di Enrico che si carica di valori positivi: egli era innanzitutto, anche se non soltanto, il marito della regina normanna e quest’ultima, una volta sposato Enrico, diveniva Imperatrice ed erede delle prerogative imperiali.

Collegamento esterno al Liber ad honorem Augusti

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Tuttavia la figura di Enrico non godè mai del favore dei suoi sudditi italiani: il francescano Salimbene de Adam non esitò a definirlo un tiranno2 mentre Riccardo di San Germano descriveva la sua entrata trionfale a Palermo – che nelle parole di Pietro da Eboli aveva trovato una declamazione degna di un sovrano universalmente amato – come uno degli episodi più sanguinosi avvenuti nel Regno.

Il matrimonio tra Costanza ed Enrico, significativamente avvenuto senza la partecipazione del Papa, che per questa via manifestava il proprio dissenso all’unione, complicava quindi ulteriormente i già contraddittori rapporti tra Santa Sede e Impero, la cui ingerenza nel Regno di Sicilia innovava profondamente gli equilibri politici del tempo saldando una parte consistente dell’Italia  –  sulla quale, come già è stato sottolineato, il Papato vantava antichi diritti feudali – all’esponente della nobile famiglia degli Hoenstaufen che deteneva la dignità dell’Impero romano-germanico.

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«Il dissenso manifestato in tal modo da un personaggio interessato indirettamente vive ancora oggi nelle diverse valutazioni da parte degli storici. Tra gli studiosi tedeschi le nozze di Milano vengono considerate come il coronamento di una politica coerentemente perseguita dagli Hohenstaufen; alcuni colleghi specialisti italiani invece non riescono ancora a spiegarsi la scelta di Guglielmo II, e ciò benchè recentemente Giovanni Tabacco abbia elaborato con la sua eccellente analisi un modo di vedere le cose scevro da pregiudizi», cfr.

T. Kölzer, Regno di Sicilia e Impero alla fine del sec. XII, in Mediterraneo Medievale. Studi in onore di Francesco Giunta, 3 voll., a cura del Centro di studi tardoantichi e medievali di Altomonte, Soveria Mannelli, Rubbettino 1989, II, pp. 645-667:647.

Secondo la tesi di Scheiffer-Boichorst il fidanzamento sarebbe stato un capolavoro della diplomazia segreta degli Hohenstaufen e dei siciliani e la divulgazione di questa abile mossa avrebbe infine portato alla rottura delle trattative di Verona tra il Barbarossa e il Papa, cfr.

P. Scheiffer-Boichorst, Kaiser Friedrich II. Letzer Streit mit der Curie, Berlin 1866, pp. 61ss.

Haller al contrario, basandosi su un controverso passo di Pietro da Eboli, ha tentato di dimostrare che l’autore di questa unione sia stato proprio Lucio III: ma questa tesi non ha riscosso particolare approvazione, cfr.

J. Haller, Heinrich VI. Und die römische Kirche, in Mitteilungen des Inst. für österreich, 35 (1914), pp. 385-454; 545-669.

L’evento fu quindi gravido di conseguenze, in quanto l’apertura all’Impero dei territori meridionali della penisola spostava decisamente l’asse di gravitazione del Regno dalla sua naturale vocazione mediterranea a un destino europeo, inserendo il Mezzogiorno nella comunità culturale dell’Europa occidentale sebbene, con la successione di Costanza d’Altavilla, il Regno di Sicilia finisse col mantenere le tradizioni amministrative preesistenti, inserendosi in una linea politica di governo lontana dalle direttive imperiali, quasi fosse un «dominio personale, una fonte speciale di potenza finanziaria e militare»3.

Se infatti, dopo essere stata incoronata regina, Costanza fu incaricata di provvedere al governo del territorio siciliano durante l’assenza dell’Imperatore – competenza che si estinse al ritorno di quest’ultimo nel 1197 –, è probabile che nel periodo della sua reggenza ella regnasse non in virtù della delega imperiale, bensì della successione al padre e in forza del proprio diritto.

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«Non si può certo parlare di governo ombra o di semplice rappresentanza; ciò si evince dai suoi documenti e dalla sua aspra protesta nei confronti di quelle che ai suoi occhi apparivano come violazioni del diritto da parte del Papa»,

T. Kölzer, Regno di Sicilia e Impero cit., p. 659.

 

I rapporti tra la monarchia sveva e l’arcivescovato di Monreale, il cui complesso abbaziale pare essere stato pressocchè ultimato proprio in quest’epoca, sono documentati nel Liber Privilegiorum da dieci privilegi, che vanno dal 1195 al 1221: di questi però, solo i primi tre furono redatti dalla cancelleria di Enrico e Costanza, a testimoniare forse lo scarso interesse dei due sovrani per la fondazione ecclesiastica.

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Il Liber Privilegiorum di Santa Maria Nuova

Elenco dei documenti regii

 

 

Un privilegio originale di Enrico VI

Il primo diploma in particolare, è la copia di una bolla aurea con cui l’Imperatore Enrico VI, insieme con la moglie Costanza, riceveva la chiesa di Santa Maria Nuova di Monreale sotto la propria protezione, confermandone tutti i privilegi, le concessioni, le immunità e i beni acquisiti sotto Guglielmo II.

documento I.13

L’esigenza di un’approvazione da parte dei nuovi sovrani rifletteva, in realtà, un costume ricorrente, rivelando il desiderio di mantenere viva la memoria e assicurare l’intaccabilità di quanto ottenuto da eventuali accuse di inautenticità. Tali convalide erano peraltro necessarie in un contesto politico mutato, per la presenza di un nuovo governo: le conferme impegnavano infatti in qualche modo la nuova autorità a non sconfessare la vecchia.

La prassi cancelleresca della conferma e stabilizzazione dei privilegi, già segnalata come fenomeno ricorrente nella documentazione fornita dal liber, aveva dunque una doppia ragion d’essere: dal punto di vista dell’ente monastico, che spesso la richiedeva, era garanzia – attraverso la precisazione dei singoli possedimenti e diritti acquisiti – degli interessi del feudo, mentre sul piano monarchico si spiegava come accreditamento dell’irreversibilità di un sistema che, nella normalizzazione dei rapporti fra sovrano e istituzioni feudali laiche o ecclesiastiche, trovava un suo punto di equilibrio, dimostrando contemporaneamente la volontà regia di considerare tali gruppi come un nucleo di dirigenza insostituibile.

 

 

 

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In ogni caso, quest’unico documento non elimina la sensazione, avvallata dalla più recente storiografia in materia, che i termini del trasferimento dei poteri da Guglielmo II a Costanza si siano appoggiati su una base giuridica sostanzialmente fragile, o per lo meno carica di ambiguità, soprattutto nei confronti della feudalità ecclesiastica, tendenzialmente penalizzata dalla ridistribuzione di terre e territori a favore di famiglie germaniche operata dalla politica filoimperiale di Enrico VI4.

Intanto nel 1194, dall’unione di Enrico VI e Costanza, era nato Federico II.

Nel 1208 il giovane re, precocemente orfano e fino a quel momento posto sotto la tutela di un nutrito gruppo di notabili formato da papa Innocenzo III, dagli arcivescovi di Palermo, Monreale, Capua e dal gran cancelliere Gualtiero di Polena, entrava nella maggiore età e si trovava di fronte agli squilibri provocati dai contrasti personali fra quanti erano rimasti legati ai gruppi di potere germanici e quanti, invece, avevano trovato più conveniente allearsi con la chiesa.

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Il giovane sovrano si ritrovava improvvisamente inserito in un sistema politico in cui convivevano, da un lato, una monarchia caratterizzata da radicali idee assolutistiche, una burocrazia articolata, un’eredità culturale composita e dall’altro, un regno squassato dalla ribellione delle etnie sottomesse, in cui il sistema amministrativo risultava asservito agli interessi della Corona piuttosto che a quelli dei sudditi, gravati di tasse5.

Nei turbolenti anni precedenti l’incoronazione di Federico, il Regnum era stato lo scenario di violente ribellioni, che avevano alimentato un fenomeno di fuga e spopolamento delle campagne siciliane. Approfittando della minorità di Federico e della situazione estremamente fluida, i saraceni, arroccandosi sui monti della Sicilia occidentale e rompendo progressivamente i legami di sottomissione, si erano dati una vera e propria organizzazione statale, resuscitando un effimero emirato sulle montagne del Val di Mazara.

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La ribellione musulmana, così come è possibile conoscerla dalle scarne notizie storiche rimaste, è il riferimento più plausibile per spiegare la presenza di numerosi fortilizi posti in posizione strategica lungo tutta la Valle del Belice.

Tra i capi della rivolta celebre è la figura di Muhammad ibn Abbad, proclamatosi amir al-muslimin (principe dei credenti) e nominato nelle cronache latine come Mirabettus (dall’arabo Amir ibn Abbad o, come ritenne Amari, da murabit, monaco guerriero), la cui autorità sembra essersi estesa a tutto l’interno della Sicilia occidentale, costruita attorno alle rocche difese di Jato, Entella, qal'at galsu, Monte Guastanella e Pizzo Gallo, fino ad Agrigento, per qualche tempo occupata dai saraceni: un territorio esteso, e posto sotto la diretta giurisdizione dell’arcivescovato di Monreale.

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Il ritrovamento di numerose monete in lamina sottile di lega d’argento e rame, che presentano la leggenda

Muhammad figlio Non c’è altro Dio che

di Abbad principe Allah Muhammad è il

dei Musulmani profeta di Allah

coniate dall’emiro in aperta sfida all’autorità costituita, lascerebbero intuire un potere forte ed esteso6 . A farne le spese maggiori, era stato proprio l’arcivescovato di Monreale7.

Il fatto che l’Imperatore svevo, diversamente dai suoi predecessori, nutrisse un limitato interesse politico nei confronti delle istituzioni religiose, è dato storiografico accertato8. In quest’ambito il sovrano, pur ispirandosifin dall’inizio ad una chiara continuità con la tradizione degli Altavilla, mantenevasul piano personale– al di là delle dichiarazioni propagandistiche e dell’ideologia imperiale – un atteggiamento alquanto tiepido.

Nelle Costituzioni di Capua l’Imperatore garantiva ai «prelatis ecclesiarum…omnes bonos usus et consuetudines, quibus consueverunt vivere tempore regis Guillelmi»,

Rycardi de S. Germano Chronica, a cura di C.A. Garufi, Bologna, ed. Forni 1936, p. 88.

È evidente però, per il contesto dei rapporti di potere venutisi a determinare con la comparsa in scena dello svevo, che all’inizio del Duecento si presentava oggettivamente una situazione nuova, inedita e inaspettata, carica di significato e se si vuole di possibilità: soprattutto in quel punto di frizione rappresentato dalla Sicilia, per la quale Federico, da abile stratega qual’era, era perfettamente consapevole che la religiosità cristiana, e particolarmente quella rappresentata dalle grandi signorie ecclesiastiche del tempo, restava ancora una fondamentale articolazione di potere.

Nella lettera inviata dall’Imperatore a Gregorio IX nel dicembre del 1232 – in uno dei rari momenti di pace con il Papa – la funzione della Chiesa contro i mali che affliggono la societas christiana sembra, non a caso, assumere una valenza assolutamente strumentale:

non duas, sed unam duplicem provisio celestis apposuit medicinam: unguentum sacerdotalis officii per quod falsorum fratrum intrinseca vitia utpote inficientia nobilem animam spiritualiter curarentur, gladii imperialis potentiam qui vulnera tumida purget acumine et prostratis publicis hostibus quod est infectum aut aridum acie mucronis imperii materialis ascidat. (…) Eadem est ergo, ut necessario repetamus, languentis fidei nostre medela, idem est gladius; sed tamen bis acutus velut proprietate pluralis numeri quo usus est Petrus in Evangelio dicens: Ecce duo gladii hic, ut ad litteram et ad oculum alludamus qui ad intellectum hactenus verba retulimus: duo vero sunt gladii, sed una eadem mater ecclesia fidei nostre genitrix est vagina duorum (…),

J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici secundi cit. IV, pp. 408-409.

L’Imperatore era consapevole di detenere egli stesso l’uso di una delle due spade, anche se evidentemente con una funzione meno spirituale rispetto all’unguentum sacerdotalis officii, ma non meno efficace al fine di garantire l’unità dell’Impero. Alla luce di queste considerazioni, non sembra dunque un’anomalia che la maggior parte dei documenti emanati dalla cancelleria di Federico in quest’epoca avesse per destinatari istituzioni o personaggi appartenenti al mondo religioso e che il monarca tendesse a confermare i privilegi in materia ecclesiastica approvati dai suoi avi normanni.

«La costruzione degli Altavilla non subiva sostanziali diminuzioni da Federico II» il quale si limitava ad aumentare i beni esenti «vietando la vendita o la donazione a enti ecclesiastici di possessiones hereditarias vel patrimoniales»,

V. D’Alessandro, Il ruolo economico e sociale della Chiesa in Sicilia dalla rinascita normanna all’età aragonese cit., p. 265.

 

Anzi, proprio l’eredità normanna ricevuta dall’Imperatore in termini di una geografia secolare composta da assetti circoscrizionali, faticosamente guadagnati in un cinquantennio di conquista e consolidatisi nel periodo dei due Guglielmi9, rappresentava uno dei perni della politica federiciana sul territorio: da cui il gruppo abbastanza nutrito di privilegi, distribuiti nel decennio a cavallo tra il 1211 al 1221, emanati dalla cancelleria federiciana in favore della chiesa di Santa Maria Nuova, definita camera speciale, alla quale venivano ancora una volta confermati tutti i possedimenti e i privilegi precedentemente assegnati da re Guglielmo II, dall’Imperatore Enrico VI suo padre e dal Federico stesso.

 

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La scontata conferma dei diritti della chieda di Monreale sulle estensioni della Sicilia occidentale era però di per sé insufficiente a sedare i disordini. La distruzione e la scomparsa della rete insediativa di villaggi aperti, comportando la desertificazione di vaste aree del monrealese – dove esisteva la più alta percentuale di villani di origine musulmana – e la sostitituzione ai casali di grossi borghi murati in cui si concentrava la popolazione agricola di vastissimi distretti, continuavano a rappresentare un problema diretto anche per il sovrano svevo, particolarmente interessato a mantenere un potere sul controllo e l’organizzazione del territorio siciliano.

«Misconosciuta a lungo o addirittura stemperata da tutta una tradizione storiografica se è vero, come è vero, che la vicenda dei musulmani di Sicilia, dopo l’Amari, è stata troppo spesso piegata alle esigenze di un mito esaltante e difficile a tramontare come quello della monarchia siciliana del XII secolo, forte, tollerante e in grado di mediare e risolvere aspri contrasti etnici, sociali, religiosi. Mito di cui, in fondo, pur con una valenza propria e un ambito indipendente e travalicante, fa parte integrante anche quello di Federico II, il cui rapporto con l’islamismo siciliano è stato in genere o fugacemente accennato come un semplice episodio dai biografi dello Svevo o dagli autori delle pochissime storie generali dell’isola, o positivamente risolto nella prospettiva, parziale e ristretta di una Sicilia mediatrice di cultura fra Oriente e Occidente»,

F. Maurici, L’emirato sulle montagne cit., p. 27.

 

 

 

Ai villani dei territori di Iato e Celso, ricadenti sotto la giurisdizione di Monreale, che sistematicamente rifiutavano le prestazioni alle quali erano obbligati e in gran numero abbandonavano le residenze, nel gennaio del 1211 il re indirizzava la propria contrarietà, autorizzando l’arcivescovo Caro a procedere in personis et bonis contro i renitenti e a prendere villanos suos ovunque si trovassero.

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La disposizione secondo la quale i servi fuggitivi dovessero restituirsi immediatamente ai padroni o ai baiuli della Curia si legge anche nelle Constitutiones:

Servos et ancillas omnes fugitivos ab aliquo capi generaliter omnibus prohibemus, nisi captos quam citius potuerint domino suo restituant, vel si domini ignoraverint, baiulis Curie nostre assignet; et baiuli magne Curie nostre trasmittant eodem,

J.L.A. Huillard-Breholles, Historia diplomatica Frederici secundi cit., IV, p. 142.

 

documento I.19 (Palermo 1211, 15 gennaio, XIV ind.)

 

 

Ad aprile Federico rinnovava l’autorizzazione, estendendola ai borgesi e dando facoltà all’arcivescovo di sequestrare i beni di coloro che non gli avesse obbedito.

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Ma l’arcivescovato di Monreale – naturalmente – non era assolutamente in grado di avvelersi della potestà conferitagli. Si trattava di una misura decisamente tardiva: la conflittualità restava infatti endemica e le promesse e concessioni finalizzate al reinserimento degli inobbedienti nel meccanismo produttivo del feudo monrealese rimanevano inascoltate.

Nel marzo del 1221, da Brindisi, l’Imperatore notificava ancora una volta ai prelati e alla nobiltà di Sicilia di aver confermato e ampliato a Caro, arcivescovo di Monreale, su sua precisa richiesta, il diritto di impadronirsi di tutti i villani sottrattisi al dominio della chiesa nel tempo delle turbationes, tentando di reintrodurre nel Val di Mazara una forma di villanaggio ormai in pieno declino.

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La resa dei saraceni e il loro reinserimento, con l’incondizionata perdita d’ogni bene e il ritorno al servaggio, erano obiettivi che l’Imperatore riteneva necessari per conservare il favore e il consenso dei beneficiari ecclesiastitci, senza il cui appoggio non sarebbe stato possibile avviare la lotta contro il baronaggio recalcitrante e contro lo stesso Papato. Per questi motivi, una volta tornato in Sicilia e avvertendo la necessità di porre il Regno al riparo da ogni resistenza interna e assicurare la propria autorità ad un apparato di potere sicuro ed efficiente, Federico non esitava ad iniziare la fase repressiva.

Nell’impossibilità di attirare i nemici in uno scontro risolutore, il sovrano era però costretto a ripiegare su una guerra d’assedio lunga e logorante: per tre anni, dal 1222 al 1224, Federico II presidiò la rocca di Jato, dove si erano asserragliate le gerarchie della rivolta capeggiata da Muhammad ibn Abbad. I tempi e le fasi di questa repressione sono ignoti, ma da vaghe allusioni di cronisti, da significativi accenni nei diplomi, dalle lettere dell’Imperatore stesso a papa Onorio III sappiamo che l’operazione repressiva si trascinò per parecchi anni, fino al noto epilogo della deportazione in massa a Lucera.

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Il castello svevo di Lucera

Le fonti latine e arabe riportano versioni diverse della fine di Muhammad ibn Abbad e della rivolta musulmana.

Secondo la cronaca araba del Tariq al-Mansuri, una parte dei ribelli musulmani avrebbe ad un certo punto tradito l’emiro, venendo a patti con Federico II: Muhammad Ibn Abbad avrebbe quindi deciso di consegnarsi all’Imperatore e chiedere la grazia, che però Federico non gli avrebbe concesso, facendolo impiccare con i due figli.

Un manoscritto della Spagna di parte musulmana, compilato nel XIV secolo da Al Himyari, sostiene invece che Muhammad sarebbe stato annegato a tradimento in mare, mentre veniva trasportato in Africa dopo la resa a condizioni. La cronaca narra come Muhammad Ibn Abbad, dirigendo la resistenza musulmana in Sicilia dalla Rocca d’Entella, abbia accettato – tra il 1219 e il 1220 –  di lasciare la Sicilia per l’Africa del Nord, lasciando la figlia come garante. Quest’ultima, avvertita della sorte del padre, avrebbe ripreso la resistenza con il concorso dei musulmani dell’Isola, organizzando tra il 1222 e il 1223 un tranello. L’esito negativo del piano avrebbe però determinato anche la morte della giovane donna. Tra le varie versioni, la prima resta probabilmente la più attendibile, nonostante le perplessità suscitate dall’ipotesi di una resa senza condizioni da parte dei musulmani. Certo è che la grande rivolta venne soffocata intorno al 1225 e che molti saraceni vennero allora deportati in massa a Lucera di Puglia.

La reductio ad unum ottenuta da Federico II a sangue e fuoco completò violentemente la redistribuzione dell’insediamento, già in atto nei decenni precedenti lo scontro, eliminando in molte aree quasi del tutto l’abitato sparso di tradizione islamica. E sebbene non sia possibile stabilire se la sparizione della popolazione musulmana dell’Isola sia stata totale, sicuramente a partire da quest’epoca i saraceni siciliani – e nella fattispecie quelli che un tempo avevano popolato il vasto territorio dell’arcidiocesi di Monreale – non esistettero più come gruppo separato e riconosciuto della popolazione10.

 

 

La sconfitta dei villani significò anche il trionfo delle libertà che proprio in quell’epoca i corpi municipali iniziavano a perseguire: dopo la feroce repressione compiuta tra 1231 e 1232 le universitates siciliane ricadenti sul territorio controllato da Santa Maria Nuova approfittarono infatti della debolezza politica dell’arcivescovato per assicurarsi il libero accesso a vasti territori agricoli rimasti deserti e spopolati.

 

 

 

A seguito di questi eventi, componente fondamentale della politica federiciana in Sicilia rimase, soprattutto dopo l’elevazione al soglio imperiale, lo scontro con il papato, che esulava le tradizionali divergenze tra imperatori e pontefici, giocandosi sul terreno dell’accanito e mai sopito tentativo, da parte della Santa Sede, di evitare l’accerchiamento territoriale alla Chiesa Romana perpetuato da un sovrano che, oltre alla Corona di Germania e Sicilia, puntava apertamente al controllo del Levante e delle città del Nord Italia.

 

 

Federico II curava il progetto grandioso di portare il centro dell’Impero nel cuore del Mediterraneo, e la sua affermazione di universalismo imperiale era assai scomoda alla Chiesa.

La polemica tra Federico II e la Sede papale fu intensa, sfociando talvolta in aperto contrasto: l’Imperatore veniva considerato uomo di grande ingegno, ma cattivo cristiano. Si veda, in proposito il pensiero di Salimbene De Adam, uno dei più attivi denigratori dello Svevo:

Et valens homo fuit interdum, quando voluit bonitates et curialitates suas ostendere, solatiosus, iocundus, delitiosus, industrius; legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire (...). Item multis linguis et variis loqui sciebat. Et ut breviter me expediam, si bene fuisset catholicus et dilexisset Deum et Ecclesiam et animam suam, paucos habuisset in imperio pares in mundo, cfr.

Salimbene De Adam, Cronica, 2 voll., n. ed. critica a cura di G. Scalia, Bari, Laterza 1966 (Scrittori d’Italia, 232-233), p. 508.

 

La corona di Costanza d'Aragona

La questione inevitabilmente coinvolgeva chi, forse incautamente, durante l’assenza di Federico e la reggenza di Costanza d’Aragona, aveva usurpato e sperperato i beni di una Corona il cui fine prioritario rimaneva quello di saldare in una prospettiva organica il sistema politico ed economico dell’Impero con la vita del Regno di Sicilia, attraverso un processo di riorganizzazione territoriale che dimostrasse il rapporto egemonico fra Imperatore e feudalità, clero, città: disegno ben lontano dalla pacifica cordialità dei primi anni di governo, che comprometteva certamente anche le sorti di un’istituzione ecclesiastica importante come Monreale.

Sembra innegabile il fatto che, se fino alla reggenza dell’arcivescovo Caro, cui pare che Federico II fosse anche legato da vincoli di gratitudine, i beni dell’arcivescovato avessero continuato a godere della protezione dell’Imperatore, alla morte di quest’ultimo il dominio di Santa Maria Nuova subisse diverse distrazioni proprio ad opera del sovrano svevo; ancora più grave appariva poi la perdita per i benedettini della possibilità di eleggere il proprio abate, che sarebbe stata fautrice di logoranti travagli nella vita religiosa di un monastero ormai secolarizzato in capite, avviando il periodo di crisi più profonda dell’arcivescovato monrealese.

 

 

 

 


1 P. Corrao, Mezzogiorno e Sicilia fra Mediterraneo ed Europa (secoli XI-XV) cit., pp. 118-119. Sul pieno inserimento del Regno di Sicilia nel contesto europeo si vedano le relazioni contenute in Potere, società e popolo nell’età sveva (1210-1266) cit. e Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo. Atti delle tredicesime Giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1997), a cura di G. Musca, Bari, Dedalo 1999 (Atti, 13).

2  Salimbene de Adam, Cronica, 2 voll. a cura di G. Scalia, Roma-Bari, Laterza 1966 (Scrittori d’Italia, 232-233), I, p. 27.

3  D. Abulafia, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500. La lotta per il dominio, Roma-Bari, Laterza 1999 (Economica Laterza, 210), p. 17.

4  Cfr. S. Tramontana, Il Mezzogiorno Medievale. Normanni, svevi, angioini, aragonesi nei secoli XI-XV, Roma, Carocci 2000 (Università, 273), pp. 56-57.

5  Cfr. D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino, Einaudi 1990, p. 7.

6   Cfr. F. D’Angelo, La monetazione di Muhammad Ibn ‘Abbad emiro ribelle a Federico II di Sicilia, Napoli, Istituto universitario orientale 1975, p. 13.

7 Per una panoramica sulle problematiche connesse alla permanenza su suoli “cristiani” di sacche di popolazione musulmana cfr. J.-P. Molenat, Le problème de la permanence des musulmanes dans les territoires conquis par les chrétiens, du point de vue de la loi islamique, in Arabica, 48 (2001), pp. 392-400.

8  Cfr. W. Kurze, Federico II e l’Italia: le grandi signorie monastiche tra Chiesa e Impero (Italia Centrale), in Archivio Storico Italiano, 584 (2000), f. II, pp. 215-252:223.

9 C.D. Fonseca, Federico II e le istituzioni ecclesiastiche del regno, in Federico II. Immagini e potere, a cura di M.S. Calò Mariani e R. Cassano, Venezia, Marsilio 1995, pp. 9-13:9.

10 Per queste considerazioni, cfr. F. Cresti, Città, territorio, popolazione nella Sicilia musulmana. Un tentativo di lettura di un’eredità controversa, in Mediterranea. Ricerche storiche, 4 (2007), pp. 21-46:31.