Originali e copie
Breve bilancio e riscontro sinottico
La seconda redazione del Liber Privilegiorum attestata dal codice vaticano, è un testo compiuto, non aperto ad addizioni posteriori, che cristallizza la documentazione nel tempo della trascrizione e nello spazio delle carte, e non lascia adito ad ulteriori elaborazionima non per questo sostituisce la tradizione diplomatica precedente, di cui anzi tende a riprodurre il più possibile l’aspetto.
Da questo punto di vista, si tratta di un caso abbastanza singolare nel panorama nazionale, dove la maggioranza dei libri di privilegi hanno natura per lo più aperta e spesso abbondano di carte non utilizzate, lasciate in bianco dai compilatori, cfr.
A. Barbero, I libri iurium dei comuni piemontesi tra Medioevo e Antico Regime, in Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo, 128 (2003) 1, pp. 95-109:103.
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Nella stesura del codice infatti, non sembra essersi verificato il caso di immediata e meccanica dispersione o distruzione degli antigrafi sciolti, fenomeno piuttosto ricorrente nella costruzione dei libri iurium comunali: la compilazione su libro e il fondo pergamenaceo di riferimento si presentano pertanto come due canali paralleli di conservazione e la costruzione del testo procede in coerenza con il discorso documentario, permettendo di avanzare un proficuo confronto tra i documenti tramandati nel registro e le pergamene originali tuttora conservate all’interno del Tabulario di Santa Maria Nuova di Monreale.
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La presenza, accanto al liber, di un nucleo significativo di antiche scritture dell’istituto, consente infatti di valutare il tipo di selezione operato nei confronti dell’archivio, evidenziando anche le eventuali omissioni.
I diplomi, spesso oggetto di accese controversie, hanno subito numerosi accorpamenti o smembramenti che hanno determinato – nel tempo – notevoli variazioni di consistenza numerica: 200 ne compaiono infatti nel minuzioso inventario redatto, il 22 luglio 1533, dal notaio Gianluigi Altavilla su incarico del governatore Bernardo Spina e dell’arcivescovo Ippolito de’ Medici; 329 sono invece gli atti transuntanti da Teofilo de Franco nel Liber Pandectarum, compilato nel 1551 con lo scopo di garantire le pretese dei monaci benedettini nei confronti del clero secolare di Monreale.
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In proposito, si veda la bolla di Urbano VI del 25 giugno 1382 nella quale, compiangendo lo stato del Duomo di Monreale, il pontefice lamentava «calcibus et libris et aliis ornamentis ecclesiasticis plurimum destituta», cfr.
C. A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di Santa Maria Nuova in Monreale cit., p. 82, n. 186.
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Frequenti anche gli spostamenti: in particolare, in seguito al trasferimento, promosso da Ludovico II Torres, dalla sacrestia della chiesa alla Biblioteca del Seminario da lui fondata, il Tabulario fu consegnato a Giorgio Guzzetta, incaricato dal cardinale Francesco del Giudice di condurne la ricognizione, studiarne i diplomi e tradurre quelli greci.
«Il can. Millunzi trovò presso l’archivio del notaio Rocco Fabrizio 37 atti pubblici, contenenti i verbali di consegna di 207 diplomi a Guzzetta da parte di mons. Francesco Marchee, provicario generale del card. Del Giudice e i relativi verbali di restituzione. I verbali sono datati dal 7 maggio 1705 al 21 aprile 1706 (…) ma del lavoro di Guzzetta non ci è pervenuto nulla»,
A.M. Grasso, Il Tabulario di S. Maria Nuova in Monreale cit., p. 255.
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Nel 1811, anno in cui il Duomo subiva un incendio, la cassa dei privilegi sigillata fu trasportata per volere regio nel monastero di San Castrenze.
Infine, nel 1835 l’arcivescovo Benedetto Balsamo ottenne dal governo borbonico che la cassa fosse trasferita nel monastero benedettino, dove procedette all’accertamento del materiale diplomatico in essa contenuto assistito da Giovan Battista Tarallo: in questa occasione i documenti, in numero di 207, furono contrassegnati dall’arcivescovo con la propria firma e numerati progressivamente, ma senza attenzione alla successione cronologica.
Dei 345 documenti che costituiscono il Tabulario, 208 portano la firma dell’arc. Balsamo, anziché 207, come si evince dal Catalogo del Garufi, cfr.
C.A. Garufi, Catalogo illustrato del Tabulario di Santa Maria Nuova in Monreale cit.
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Secondo Millunzi, in tale occasione, il Tarallo avrebbe aggiunto ai documenti della chiesa, senza confonderli, altri 135 documenti che appartenevano al monastero benedettino, così formando la collezione diplomatica monrealese completa oggi custodita presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana.
«Dopo sette anni di lavoro, G.B. Tarallo, con l’aiuto di altri Benedettini, aveva trascritto i documenti, fatto tradurre quelli in arabo e in greco, li aveva corredati di note filologiche, storiche e diplomatiche e di un indice cronologico. (…) i documenti venivano da lui raccolti non più soltanto come ‘certificati’ ma come ‘cimeli’ storici e diplomatici di primaria importanza»,
A.M. Grasso, Il Tabulario di S. Maria Nuova in Monreale cit., p. 255.
Il codice diplomatico del Tarallo, intitolato Tabularium Regiae Metropolitanae ecclesiae Montis Regalis Ferdinandi II regni utriusque Siciliae regis iussu editum acnotis illustratum opera et studio monachorum ordinis S.P. Benedicti Congregationis Cassinensis eiusdem ecclesiae canonicorum, non è mai stato pubblicato, a causa dei temporeggiamenti del governo borbonico, che ne aveva promosso inizialmente la compilazione,
cfr. Ead., p. 257.
Sui successivi studi e inventari che ebbero per oggetto il Tabulario di Santa Maria Nuova di Monreale, culminanti nella pubblicazione del Catalogo di Carlo Alberto Garufi, si vedano le pagine della Grasso, Op. Cit., pp. 256-259.
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Diversa l’interpretazione di Garufi, secondo il quale fu lo stesso arcivescovo Balsamo a dividere i documenti che riguardavano l’arcivescovado da quelli che interessavano il convento, e ad apporre solo sui primi la propria firma.
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Sebbene non sia possibile stabilire se la successione delle copie nel codice rispecchi l’ordinamento secondo il quale le pergamene fossero originariamente organizzate nell’archivio, comparando i diplomi trascritti nel cartulario con i documenti originali conservati nel fondo diplomatico, il dato significativo appare la volontà, che si esplica nella scelta di determinate attestazioni, di fornire un’immagine forte e indiscutibile dell’istituzione arcivescovile, un ritratto rappresentativo e facilmente esportabile all’esterno, corroborato dalla divisione seriale e da continue riprese di atti precedenti che sottolineino la continuità del potere, seguendo un modello che – sebbene non di esclusiva matrice monastica – fu certamente portato al massimo grado di raffinatezza proprio dalle grandi abbazie.
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«(…) e che appare, del resto, strettamente connesso con l’ottica tipicamente archivistica della documentazione monastica, in grado di sfruttare al massimo il prestigio di lunghe sequenze di atti cronologicamente successivi e di contenuto strettamente unitario»,
G.G. Fissore, I monasteri subalpini e la strategia del documento scritto, in Dal Piemonte all’Europa: esperienze monastiche nella società medievale. Relazioni e comunicazioni presentate al XXXIV Congresso storico subalpino nel millenario di San Michele della Chiusa (Torino, 27-29 maggio 1985), Torino, Deputazione subalpina di storia patria 1989, pp. 87-105:97-98.
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La presenza nel codice di continui rimandi ad atti regi e/o papali di conferma e il richiamo, il più delle volte esplicito e analitico, ai documenti che li hanno preceduti, può essere letta in vari modi, tra loro probabilmente connessi.
Da un lato, segnalano un uso accorto delle potenzialità dell’archivio, a favore del quale ottengono ogni volta una nuova garanzia di autenticità e di forza probatoria grazie all’insinuazione degli atti precedenti entro nuovi diplomi di conferma; dall’altro, proprio la serialità dei documenti e il loro concatenarsi in una linea ininterrotta di tradizione legittimante rappresenta una funzione rilevante per enti che fanno della continuità un elemento primario della loro posizione ideologica.
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Il cardine centrale del codice è però costituito da un nucleo di documenti, a cavallo tra la fine del XII e la seconda decina del XIII secolo, che attestano il processo di costruzione territoriale promosso dall’ente e, parallelamente, il rafforzarsi dei numerosi rapporti di dipendenza o preminenza giuridica con le componenti istituzionali attive sul territorio siciliano.
Nei suoi criteri di stratificazione interna il codice dunque, non solo descrive un territorio, ma si configura esso stesso come strumento di costruzione territoriale, che da un lato pone un orizzonte dinamico all’espansione monrealese e dall’altro, esalta il dominio e la potestas ecclesiastica.
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In ombra resta, chiaramente, la gestione quotidiana della diocesi, l’ordinaria amministrazione, le scritture informali o contabili: una forma di documentazione che, evidentemente, non può trovare spazio all’interno di un cartulario costruito su “carte pubblicistiche”1 che rappresentino la diretta emanazione delle prerogative vescovili, l’ampiezza della giurisdizione temporale e spirituale, il rapporto con l’autorità imperiale e pontificia.
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La selezione documentaria operata, valorizzando determinati elementi, offuscandone altri ed elaborando un discorso di complessa interconnessione documentaria, determina il passato rappresentativo che si intende tramandare e, contemporaneamente, diventa funzionale al disegno di un’istituzione capace di imporsi come indiscusso centro giurisdizionale del territorio.
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Poco importa, in questo senso, se il prodotto finale si realizzi mediante semplice trascrizione in copie prive di autenticazione e dunque, prive di valore legale: una modalità riproduttiva non addebitabile esclusivamente – come da alcuni sostenuto – ad aree a notariato debole, ma riscontrabile anche in esperienze comunali2 , a proposito della quale è stata anzi proposta la volontà precisa di attingere credibilità unicamente dal supporto libresco e dal prestigio e autorità dell’istituzione che ne è responsabile3.
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In conclusione può essere utile considerare, accanto alla documentazione analizzata, anche il caso di una “scrittura mancata”.
Prima del XVI secolo la chiesa arcivescovile di Monreale non fece mai redigere un inventario sistematico dei propri diritti e possedimenti, diversamente dall’uso di numerosi episcopi o centri ecclesiastici italiani, che avevano promosso iniziative censitarie di ampio respiro già nel Duecento.
Si vedano, a titolo di esempio, i riscontri forniti da G.M. Varanini, Gli spazi economici e politici di una chiesa vescovile: assestamento e crisi nel principato di Trento fra la fine del XII e gli inizi del XIV secolo, in Gli spazi economici della Chiesa nell’Occidente mediterraneo (secoli XII-metà XIV). Atti del Sedicesimo Convegno Internazionale di Studi (Pistoia, 16-19 maggio 1997), Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte 1999, pp. 287-312:310.
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Essa disponeva, nel Quattrocento, di un’unica scrittura panoramica e sintetica: un registro che conteneva tutti i privilegi di cui il vescovato di Monreale era stato l’artefice o il destinatario.
Anche se la seconda redazione del Liber Privilegiorum fu sicuramente il frutto di un’operazione importante sul piano simbolico, incrementando il prestigio della chiesa e agevolando la rivendicazione di prerogative eventualmente contestate, non fu certo ricorrendo alla trascrizione di remote donazioni dei secoli precedenti che fu possibile governare concretamente il capitale dell’arcivescovato.
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Mentre il codice vaticano veniva redatto, i beni di Santa Maria Nuova restavano noti frammentariamente, grazie alle descriptiones contenute nei singoli atti trascritti: sicchè negli stessi anni in cui si formava l’archivio ordinario della chiesa e le scritture si specializzavano, rimaneva in fin dei conti difficoltoso valutare complessivamente l’entità del patrimonio, disporre di un panorama esauriente delle sue rendite, riferirsi a destinazioni colturali e confinazioni aggiornate. |
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1 Cfr.
P. Grossi, Le abbazie benedettine nell’alto medioevo italiano. Struttura giuridica, amministrazione e giurisdizione, Firenze, Le Monnier 1957 (Pubblicazioni della Universita degli studi di Firenze. Facolta di Giurisprudenza. Nuova serie, 1), p. XXII.
2 Cfr.
D. Puncuh, Cartulari monastici e conventuali: confronti e osservazioni per un censimento cit., p. 353.
3 Cfr.
G.G. Fissore, I monasteri subalpini e la strategia del documento scritto cit. p. 99.
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