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Cartulari di istituzioni medievali e costruzione dell’identità politica

Nel panorama storico europeo, le pratiche di conservazione e il loro trasformarsi hanno avuto un forte impatto sui rapporti di potere e una notevole capacità di condizionare la creazione di un’identità politica per i protagonisti dell’interazione sociale. La portata del fenomeno tuttavia – nonostante i continui richiami ad un approccio alle fonti scritte che sappia interrogarsi sui presupposti della loro produzione e su forme e modalità di trasmissione – non sembra ancora essere stata colta appieno dalla più aggiornata storiografia nazionale1.

La causa di questa mancata attenzione è forse da ricercarsi in un maggiore interesse nei confronti della scrittura e dei problemi ad essa legati – alfabetizzazione, acculturazione, profilo sociale degli scriventi – con indirizzi di ricerca per lo più orientati sul momento della produzione del documento piuttosto che su quelli della sua successiva conservazione e tradizione.

 

Le tre sezioni della cancelleria normanna: greca, araba e latina. Miniatura del Liber ad honorem Augusti, Berna, Burgerbibliothek, ms. 120 II, c. 101r.

Scrivere, soprattutto in passato, ha significato dominio sulla memoria e, in quanto tale, pratica eminentemente politica. Come elemento fondamentale di controllo e governo di una società o un’istituzione, questa attività è stata frutto di scelte consapevoli e oggetto di selezioni e riqualificazioni che fossero in grado di strutturare il ricordo del presente e organizzare, in prospettiva, il futuro. Nell’incrocio fra strutture culturali e strutture comunitarie, favorendo la crescita della documentazione amministrativa, la scrittura è stata il mezzo ideale per la fondazione e l’affermazione di un potere stabile.

Per questo motivo, alla capacità di elaborare la rappresentazione del passato attraverso la documentazione scritta, la storiografia ha continuato ad attribuire il valore di componente chiave nella descrizione di un’esperienza identitaria e di una strategia di rapporto con l’esterno: nell’analisi di determinate realtà storico-istituzionali, lo studio del suo patrimonio scritto è stato infatti una metodologia di approccio particolarmente adeguata, perché è attraverso questo mezzo che il potere si è regolarizzato retrospettivamente e immortalato prospettivamente.

 

 

 

 

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Questo assunto è particolarmente valido per il Basso Medioevo, epoca in cui le istituzioni, mosse da concreti interessi di natura sociale ed economica, hanno iniziato a  comprendere il valore propriamente giuridico-amministrativo, nonchè politico, del governo dello scritto, della sua organizzazione in sistemi e modelli predefiniti e dei meccanismi di inclusione/esclusione funzionali ad una prassi del potere.

Sotto questo profilo, una consapevole riflessione sulle forme di rappresentazione e i mutamenti culturali della società medievale non dovrebbe prescindere da una attenta considerazione dei passaggi dell’informazione scritta e delle innovazioni dei metodi di conservazione, come rappresentazione della connessione tra le organizzazioni istituzionalizzate e il loro modo di vivere e gestire il potere. Assumere che «scrivere per conservare» è «scrivere per agire», riprendendo una felice osservazione di Patrizia Cancian2, significa dunque inserire coerentemente – in una indagine orientata sui processi costitutivi della memoria identitaria – anche le attività di conservazione e revisione dei prodotti della cultura cancelleresca.

Analizzando gli effetti della scrittura sull’organizzazione sociale e sui processi cognitivi, Jack Goody ha sostenuto come, tra le prime iniziative intraprese dai governi dotati di scrittura contro i capricci della memoria orale, vada annoverata proprio l’attività di copia:

Possiamo osservare già nell’antichità il processo di riorganizzazione nei grandi archivi e biblioteche della città siriana di Ebla, che risalgono alla metà del terzo millennio a.C. e comprendono quelle che sono probabilmente copie di messaggi originali inviati a funzionari in missione all’estero o indirizzati direttamente ad altri re. Fare una copia è una delle iniziative dei governi dotati della scrittura, perché così non occorreva più fare affidamento sui capricci della memoria orale. Mettere le cose per iscritto poteva permettere interpretazioni esatte, letterali di questi documenti, perché il testo scritto, diversamente dalle espressioni verbali, può essere recuperato e analizzato in maniera del tutto diversa,

J. Goody, Il potere della tradizione scritta, Torino, Bollati Boringhieri 2002 (tit.or. The power of the written tradition, Washington-London, Smithsonian Institution Press c2000), pp. 128-129.

 

L’accumulazione di documenti e il tentativo di riorganizzarli secondo criteri logici, che trova dunque un riscontro preciso già in epoca remota, sembra indicare una profonda volontà di conoscenza e riflessione sulle attività dell’individuo o della società che lo rappresenta, e finisce col convogliarsi, necessariamente, in un processo di immagazinamento, recupero e manipolazione delle informazioni conservate3.

Nelle parole dello stesso Goody, «per acquisire o manipolare le informazioni, per riflettere su di esse, l’individuo deve saperle recuperare».

La scelta di un orientamento concentrato sul risvolto al tempo stesso pratico e ideologico delle attività documentarie praticate da istituzioni a forte base concettuale e patrimoniale, privilegia ovviamente una metodologia in grado di accostarsi alla creazione di scritture pratiche come prassi di servizio e strumenti di supporto al governo, e di queste analizza non soltanto il momento legato alla loro produzione, ma anche quello della successiva tesaurizzazione, che si compie attraverso l’ordinamento, la trasmissione e la conservazione, nei termini della ricerca di una costruzione identitaria a carattere politico.

L’indirizzo concettuale diretto all’analisi della creazione della memoria legittimante di un’istituzione attraverso la composizione di scritture pratiche – che in questo caso si concretizza nell’esame di un cartulario monastico meridionale – cerca anche di suggerire una prospettiva nuova, con la quale rivedere temi già visitati dalla medievistica europea, nel tentativo di  riagganciare una tradizione storiografica in forte ascesa – quella relativa alla produzione dei libri iurium comunali – al fertile, ma ancora poco indagato, territorio d’indagine offerto in quest’ambito dalla Sicilia medievale.

 

 

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L’indagine intrapresa attraverso lo studio analitico del Liber Privilegiorum di Monreale – oggetto di questo lavoro – è consapevole delle critiche spesso mosse a chi, approfondendo il fecondo rapporto tra la storia diplomatica e la storia del contesto culturale, accordi la propria preferenza ad un testo unico, e ancor più ad un copiario di documenti, piuttosto che ad un tabulario quando non ad un intero archivio diplomatico.

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Tralasciando il fatto che, come ricordava giustamente Scalfati, per uno studio storico-diplomatistico ogni testo ha valore come documento a sé e una copia può avere lo stesso valore dell’originale, permettendo non soltanto di conoscere le sue finalità, l’epoca e l’ambiente in cui venne redatta, ma anche di procedere per analogia nella ricerca sui rapporti con l’originale nei casi in cui questo non sia pervenuto, le considerazioni epistemologiche suscitate dall’utilizzo di una simile tipologia documentaria non sono certo irrilevanti4.

I cartulari si offrono infatti alla lettura dello storico da almeno due possibili angolazioni.

La prima, intrinseca, cioè di contenuto: sul piano della metodologia storica le possibilità di utilizzazione di queste fonti sono molteplici, dal momento che i documenti in essi trascritti possono essere valutati in chiave politica, religiosa, giuridica, istituzionale e via dicendo, fornendo di volta in volta interpretazioni diverse, in relazione agli interrogativi della ricerca in atto.

La seconda, estrinseca, si lega alla fattura materiale e alla tradizione del patrimonio documentario, ne permette l’analisi come fonti esemplari, storie esse stesse, create attraverso un iter di formazione, raccolta e composizione testuale che sempre evidenzia importanti risvolti politici, sociali ed economici. 

Non ultimo, lo studio di un cartulario rende possibile quella che Fissore ha definito «archeologia del documento», intendendo con essa una ricerca di valenza storico-archivista attenta alle integrazioni complesse, in cui la comprensione dei singoli eventi documentari e della loro funzione «appare indissolubilmente legata ad una comprensione piena del contesto politico-amministrativo-istituzionale entro cui è nato per incorporarsi in una fonte sistematica»5.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ad una certa disapprovazione di fondo fa da contrappunto l’assenza di un panorama di studi in materia omogeneo e completo, la carenza di analisi specifiche, di ricognizioni condotte regione per regione e di edizioni.

 

La traccia più evidente di questo singolare disimpegno storiografico sta nell’assenza di una definizione univoca, che sia in grado di ordinare e riunire la diversità tipologica delle fonti riunite sotto il termine «cartulario».

La debolezza della base storiografica di partenza è denunciata, tra l’altro, dal ricorrere nei contributi specifici della menzione delle stesse, poche, opere di riferimento generali, cui sembra invece contrapporsi una vera e propria fioritura di storie diplomatiche locali, col rischio di indurre a considerare erroneamente queste fonti come manifestazioni e prodotti di isolati comportamenti istituzionali.

Nel tentativo di superare questa visione parziale – e dunque ristretta – del fenomeno, l’analisi del liber monrealese è stata inserita in un più ampio discorso storico, legato alla produzione e diffusione dei cartulari medievali nell’ambito istituzionale, sia civile che ecclesiastico, italiano.

 

 

 

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La via è già stata tracciata dall’interesse storiografico verso le  molteplici forme assunte dalla documentazione comunale, settore di studi che si è aperto  con alcune ricerche pioneristiche: i lavori di Pietro Torelli, gli studi di Girolamo Arnaldi sulle cronache, il saggio di Gherardo Ortalli sugli statuti ferraresi del 1173, che hanno dato origine a numerose edizioni di libri iurium comunali.

 

 

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Ma anche in questo caso minore è stata l’attenzione riservata alle testimonianze fornite dall’ambiente ecclesiastico, cui in genere sono stati fatti accenni in margine – sia dal punto di vista storico che da quello diplomatico6 – quasi ad indicare in esse un prodotto secondario di una grande tradizione documentaria: in particolare la Rovere, sostenendo per i libri iurium una rigorosa aderenza agli antigrafi e un controllo diretto esercitato su di essi dall’autorità pubblica, che si sarebbe manifestato nella committenza della redazione a figure di cancellieri o notai ufficiali7, ha finito col prospettare una vera e propria discriminante tra i due ambiti di creazione.

 

 

 

 

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In realtà, i libri di privilegi monastici non sembrano un prodotto intrinsecamente diverso dalle coeve produzioni comunali, e come queste riflettono l’attualità di un contesto politico e di un diritto non ancora superato.

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I libri privilegiorum insomma,  non sono una fossilizzazione antiquaria del diritto, ma piuttosto realtà viventi e aperte, che escludono ciò che non è più attuale e si preoccupano di aggiungere eventuali novità, cfr.

A. Barbero, I libri iurium dei comuni piemontesi tra Medioevo e Antico Regime, in Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo, 128 (2003) 1, pp. 95-109:108.

 

Una distinzione così netta è stata, presumibilmente, il risultato di un’opzione metodologica di fondo della storiografia contemporanea, che nei cartulari comunali ha voluto individuare una delle manifestazioni della vitalità e creatività politica dei comuni indipendenti, creando il mito di una differenza sostanziale con i libri monastici, intesi esclusivamente come contenitori di franchigie e esenzioni sovrane.

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Più motivata appare invece la differenziazione le compilazioni statutarie, che nello stesso periodo storico iniziano a diffondersi in Italia centro-settentrionale e che per i secoli del pieno e tardo Medioevo costituiranno una manifestazione evidente dei nuovi caratteri della società urbana, tra cui una più precisa organizzazione burocratico-amministrativa.

Le raccolte documentarie in libro delle comunità non urbane possono costituire invece indubbiamente, al di là del loro innegabile interesse sotto il profilo diplomatistico e codicologico, una spia rivelatrice della volontà e capacità di autogoverno espressa a livello locale8.

a prospettiva offerta dalle fonti rende inoltre arduo rintracciare elementi veramente omogenei o discriminatori, e finisce col mostrare quelle che possono essere le caratteristiche comuni di un insieme documentario, a partire dal contenuto strettamente collegato alle finalità, sia a quelle di ordine pratico – pericolo di dispersione e di deterioramento, una più agevole consultazione – sia, e soprattutto, a quelle ideali: che si incarnano nella sostanza degli atti trascritti, a testimonianza dei diritti acquisiti.

Siano essi privilegi, atti di compravendita, di permuta o di donazione, di locazione, di enfiteusi, livelli o sentenze. A dimostrazione che un’azione di promozione e di controllo è valida sia per le autorità laiche che per quelle ecclesiastiche, cfr.

D. Puncuh, Cartulari monastici e conventuali cit., p. 342, che continua:

Che poi la documentazione ecclesiastica conservata, prevalentemente limitata alla tutela del patrimonio immobiliare, com’è ben noto, diventi spesso il puntuale riflesso di un’attività corrente, ordinaria, amministrativa e finanziaria, questo non comporta di per sé, come talvolta si avverte, una sostanziale distinzione terminologica». In generale comunque, le tipologie documentali prevalenti nei libri iurium sono le stesse che si ritrovano nei libri privilegiorum: diplomi imperiali e regii, privilegi o lettere papali, atti di sottomissione compiuti da signori laici o ecclesiastici, acquisizioni patrimoniali e locazioni di immobili.

Accostando i prodotti della cultura monastica a quelli comunali, va anzi sottolineata una generale assenza di sistematicità dei contenuti – soprattutto in copie di prima generazione, nelle quali di solito non compare alcuna strutturazione tematica e che andrebbero piuttosto inquadrate in un programma di generale riorganizzazione e salvaguardia del patrimonio documentario – contrapposta all’evoluzione dei testi posteriori la metà del XIII secolo, caratterizzati invece da una rigorosa struttura gerarchica con precedenza ai documenti imperiali rispetto ai pontifici: così sembrano essere stati approntati, ad esempio, il Vetustior genovese (1229) e il Registro di Viterbo, entrambi perduti, ma anche il Registro Nuovo di Bologna, del 1258, i Vetera Monumenta di Como (fine del XIII sec.) e il Liber Privilegiorum di Mantova del 1291.

È il segnale di una presa di coscienza dei presupposti giuridici e della volontà di consegnare ai posteri la propria memoria storica, attraverso il rilievo attribuito agli atti costitutivi dell’ente e, più in generale, a tutta la documentazione riguardante le sue origini e i successivi sviluppi.

In questa prospettiva si inquadra anche l’analisi del caso reale e specifico fornito dal cartulario monrealese: la cui formazione è strettamente intrecciata all’espansione politica di quella che nel Medioevo fu una vera e propria signoria territoriale e può quindi consentire ampie riflessioni sul sistema aggregativo attorno al quale l’arcivescovato fondò, nei secoli, la propria pratica governativa.

 

In Sicilia, tra l’altro, l’occasione per ricerche e approfondimenti condotti su materiali scrittorii afferenti alla sfera della documentazione su libro sembra essere stata a lungo trascurata.

Le edizioni e gli studi delle fonti in materia sono tutte collocabili a cavallo dei primi anni del Novecento, salvo qualche rara eccezione, mentre negli ultimi anni l’attenzione della storiografia locale si è piuttosto concentrata sul versante degli statuti e delle normative comunali e territoriali, privilegiando lo studio della documentazione prodotta in ambito cittadino.

 

Si pensi all’edizione dei registri degli Acta Curie Felicis Urbis Panormi, fonte essenziale per la storia di Palermo nel XIV secolo che ha impegnato, nell’ultimo decennio, innumerevoli studiosi siciliani.

La collana di atti conta, attualmente, dodici volumi: 

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 1. Registri di lettere gabelle e petizioni 1274-1321, a cura di F. Pollaci Nuccio e D. Gnoffo, introduzione di F. Giunta, Palermo, Municipio di Palermo 1982 (rist. anast. dell’ed. del 1892);

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 2. Fisco e società nella Sicilia aragonese. Le pandette delle gabelle regie del XIV secolo, a cura di R.M. Dentici Buccellato, Palermo, Municipio di Palermo 1983;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 3. Registri di lettere (1321-1326). Frammenti, a cura di L. Citarda, studio introduttivo di A. Baviera Albanese, premessa di G. Bosco, Palermo, Municipio di Palermo 1984;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 4. Registro di lettere (1327-1328), a cura di M. R. Lo Forte Scirpo, Palermo, Municipio di Palermo 1985;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 5. Registri di lettere ed atti (1328-1333), a cura di P. Corrao, prefazione di R. Giuffrida, Palermo, Municipio di Palermo 1986;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 6. Registri di lettere (1321-22 e 1335-36), a cura di L. Sciascia, Palermo, Municipio di Palermo  1987;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 8. Registro di lettere (1348-49 e 1350), a cura di C. Bilello e A. Massa, premessa di P. Gulotta, introduzione di L. Sciascia, Palermo, Municipio di Palermo e Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Palermo 1993;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 9. Registro di lettere (1350-1351), a cura di C. Bilello, F. Bonanno, A. Massa, introduzione di L. Sciascia, premessa di E. Calandra, Palermo, Municipio di Palermo 1999;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 10. Registri di lettere (1391-1393) e ingiunzioni (1324), a cura di D. Santoro, presentazione di S. Fodale, Palermo, Municipio di Palermo 2002;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 11. Registri di lettere e atti (1395-1410), a cura di P. Sardina, presentazione di S. Fodale, Palermo, Municipio di Palermo e Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Palermo 1994;

  • Acta curie felicis urbis Panormi. 12. Registri di lettere atti bandi ed ingiunzioni (1400-1401 e 1406-1408), a cura di P. Sardina, Palermo, Municipio di Palermo 1996.

Nonostante il ritardo degli studi, la realtà siciliana resta però un terreno fecondo per ricerche relative alla produzione documentaria su volume, soprattutto in ambiente religioso, dove il fenomeno si realizza in numerosi esemplari – cronologicamente anteriori rispetto agli affini prodotti cittadini – e più evidente emerge quella relazione circolare tra sistema di scrittura e pratica di dominio attraverso la quale specifiche esigenze politiche, sociali, economiche hanno determinato un certo tipo di organizzazione documentaria come espressione e attuazione di una forma di governo, «stimolando nel contempo una progressiva definizione ed elaborazione di quelle stesse forme di potere»9.

L’esame del Liber Privilegiorum di Santa Maria Nuova cerca dunque di definire la natura di una tipologia libraria attraverso la descrizione del singolo esemplare, nella convinzione che solo attraverso lo studio di strutture e funzioni, delle ragioni particolari e delle forme di produzione e conservazione, sia possibile non solo tentare una comparazione con testi simili, ma soprattutto rintracciare e seguire il profondo legame esistente tra l’istituzione ecclesiastica e la multiforme società medievale: che nel libro e nei documenti in esso trascritti assume la veste di un microcosmo, fatto di convivenze e scontri, naturalmente aperto alle istanze mediterranee, diviso tra aspirazioni imperiali, pontificie, signorili eppure a lungo sorprendentemente coeso.

 

 


1  Cfr. P. Corrao, Pieno e basso Medioevo: metodologie della ricerca e modelli interpretativi, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, diretta da A. Barbero. II, Dal Medioevo all’età della globalizzazione; sez. IV, vol. VIII, Popoli, poteri, dinamiche, a cura di S. Carocci, Roma, Salerno 2006, pp. 361-408: 371.

2   P. Cancian, Scrivere per conservare, scrivere per agire: attività documentaria delle chiese cittadine nei secoli IX-XIII, in La memoria delle chiese: cancellerie vescovili e culture notarili nell’Italia centro-settentrionale (secoli X-XIII),  a cura di P. Cancian, Torino, Scriptorium 1995, pp. 200-216..

3   Id., p. 158.

4   S.P.P. Scalfati, Trascrizioni, edizioni, regesti. Considerazioni su problemi e metodi di pubblicazione delle fonti documentarie, in Id., La forma e il contenuto. Studi di scienza del documento, Pisa, Pacini 1993, pp. 31-50:41.

5   G.G. Fissore, L’edizione dei libri iurium genovesi: una riflessione, in Nuova Rivista Storica, 77 (1993), pp. 437-444:444.

6   La stessa Rovere finisce con l’escludere dalle sue trattazioni questa ‘tipologia’, cfr. A. Rovere, I “libri iurium” dell’Italia comunale cit., p. 165.

7   Cfr. A. Rovere, I libri iurium delle città italiane cit., pp. 79-80.

9   L. Baietto, Elaborazione di sistemi documentari e trasformazioni politiche nei comuni piemontesi (secolo XIII): una relazione di circolarità, in Società e storia, 98 (2002), pp. 645-679:647.