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Verso una crisi della storia di carta?

Nel 1984 Primo Levi narrava con entusiasmo il suo recente acquisto di un Macintosh 128k: il primo incontro pieno d’ansia, il senso quasi di paura nell’accostarsi ad un oggetto nuovo; poi, il paragone, fulminante, dell’apparecchio al Golem, l’automa di argilla “di forza erculea e obbedienza cieca” che è inerte, inanimato, finchè il suo creatore non gli introduce in bocca un rotolo di pergamena su cui è scritto un versetto della Torah.

Mi sono dunque accinto a lavorare sui due fronti, verificando cioè sull’apparecchio le istruzioni dei manuali, e m’è subito tornata alla mente la leggenda del Golem. Si narra che secoli addietro un rabbino-mago avesse costruito un automa di argilla, di forza erculea e di obbedienza cieca, affinché difendesse gli ebrei di Praga dai pogrom; ma esso restava inerte, inanimato finché il suo autore non gli infilava in bocca un rotolo di pergamena su cui era scritto un versetto della Torà. Allora il Golem di terracotta diventava un servo pronto e sagace: si aggirava per le vie e faceva buona guardia, salvo impietrirsi nuovamente quando gli veniva estratta la pergamena. Mi sono chiesto se i costruttori del mio apparecchio non conoscessero questa strana storia (sono certo gente colta e anche spiritosa): infatti l’elaboratore ha proprio una bocca, storta, socchiusa in una smorfia meccanica. Finché non vi introduco il disco-programma, l’elaboratore non elabora nulla, è un’esanime scatola metallica; però, quando accendo l’interruttore, sul piccolo schermo compare un garbato segnale luminoso: questo, nel linguaggio del mio Golem personale, vuol dire che esso è avido di trangugiare il dischetto. Quando l’ho soddisfatto, ronza sommesso, facendo le fusa come un gatto contento, diventa vivo, e subito mette in luce il suo carattere: è alacre, soccorrevole, severo coi miei errori, testardo, e capace di molti miracoli che ancora non conosco e che mi intrigano. (...) Ho notato che così si tende alla prolissità. La fatica di un tempo, quando si scalpellava la pietra, conduceva allo stile ‘lapidario’: qui avviene l’opposto, la manualità è quasi nulla, e se non ci si controlla si va verso lo spreco di parole; ma c’è un provvido contatore, e non bisogna perderlo d’occhio.

Analizzando adesso la mia ansia iniziale, mi accorgo che era in buona parte illogica: conteneva un’antica paura di chi scrive, la paura che il testo faticato, unico, inestimabile, quello che ti darà fama eterna, ti venga rubato o vada a finire in un tombino. Qui tu scrivi, le parole appaiono sullo schermo nitide, bene allineate, ma sono ombre: sono immateriali, prive del supporto rassicurante della carta. ‘La carta canta’, lo schermo no; quando il testo ti soddisfa, lo ‘mandi su disco’, dove diventa invisibile. C’è ancora, latitante in qualche angolino del disco-memoria, o l’hai distrutto con qualche manovra sbagliata? Solo dopo giorni di esperimenti ‘in corpore vili’ (e cioè su falsi testi, non copiati ma creati) ti convinci che la catastrofe del testo perduto è stata prevista dagli gnomi geniali che hanno progettato l’elaboratore: per distruggere un testo occorre una manovra che è stata resa deliberatamente complicata, e durante la quale l’apparecchio stesso ti ammonisce: ‘Bada, stai per suicidarti’.

Il racconto è contenuto in P. Levi, L’altrui mestiere,Torino, Einaudi 1985 (Einaudi Tascabili, 495).

Primo Levi al computer

Sono passati oltre vent’anni e per molti versi il computer è ancora inteso da molti come un Golem nei confronti del quale vige – soprattutto in ambiente accademico – un atteggiamento contraddittorio: da un lato, la diffidenza e la resistenza verso una “creatura” che sembra minacciare una tradizione di studi consolidata; dall’altro, la curiosità per la possibile sperimentazione di nuovi oggetti e di nuovi metodi che, invece, da sempre costituiscono il presupposto per il progredire della ricerca e della cultura.

Nel frattempo, soprattutto nell’ambito delle applicazioni informatiche alle indagini storiche, si sta assistendo al passaggio dalle funzioni di analisi e calcolo agli usi comunicativi, alla pubblicizzazione delle informazioni, alla condivisione delle risorse.

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Alla questione, segnata da una netta divisione tra fautori dell’innovazione e tecnoscettici, si sono affiancati negli ultimi anni numerosi tentativi di bilancio sugli eventuali cambiamenti della ricerca storica dopo l’avvento della rete.

 

v. ad esempio il rapporto di Pavliscak, Ross e Henry, 1997, in Humanities Scholarship: Achievements, Prospects and Challenges; American Council of the Learned Societies, Occasional Paper 37 (1997); Journal of the Association for History and Computing, 1; Storia & Multimedia 1996.

Particolarmente interessanti, in questo senso, sono risultate ad esempio le indagini – non ispirate ad alcuna idolatria del mezzo telematico – condotte da Andrew McMichael e Deborah Lines Andersen che, nell’analizzare le conseguenze dell’assunzione di internet sul lavoro di ricerca storica, hanno chiaramente mostrato come l’accordo apparentemente unanime sui positivi effetti della rivoluzione telematica nasconda una realtà in cui non continua ad emergere – neppure in ambito statunitense – un chiaro e definitivo consenso intorno a quale sia l’effettiva, pratica utilità del Web.

Cfr.

A. McMichael, The Historian, the Internet and the Web: A Reassessment, Perspectives.

D. Lines Andersen, Academic Historians, Eletronic Information Access Technologies and the World Wide Web: A Longitudinal Study of Factors Affecting Use and Barrieres to that Use, in The Journal of the Association for History and Computing, I, (June 1998) 1.

La Andersen in particolare, ha somministrato un questionario ai ricercatori e analizzato le pagine web dei dipartimenti di storia dei quattro campus della State University of New York.

La vivacità della discussione, che ha visti impegnati numerosi gruppi di studiosi e di storici, è sintomo dell’importanza e dell’urgenza che viene attribuita a questo genere di questioni.

Tuttavia non è difficile notare con quanta lentezza e distrazione, per non dire aperta diffidenza, l’insieme delle prassi e dei dibattiti cui si è fatto riferimento siano stati seguiti dagli esponenti della storiografia accademica italiana: mentre infatti, un prestigioso periodico come l’American Historical Review ha accolto regolarmente – fin dagli esordi – interventi di qualche rilievo, stimolato confronti e dato conto delle sempre più numerose pubblicazioni elettroniche e cartacee in materia, solo poche riviste storiche italiane si sono attrezzate per conseguire una presenza telematica di qualche rilievo ed esigue sono state le iniziative promosse per la creazione di periodici in formato elettronico.

Collegamento esterno all'American Historical Review

 

Tra le pubblicazioni periodiche che in qualche modo hanno partecipato al dibattito, ospitando interventi, vanno citate Studi Storici e Storia della Storiografia.

Le riviste elettroniche italiane si contano invece ancora sulle dita di una mano: Arachnion per l’antichistica, coordinata dalle università di Firenze e Torino, il bollettino Spolia curato dall’Università di Roma e Reti Medievali per la medievistica, Cromohs per la storia moderna, promossa dalle università di Firenze e Trieste.

Nel contesto storiografico italiano, le intense discussioni sulla natura, il valore, le conseguenze e le prospettive offerte dall’utilizzo dell’informatica e delle reti telematiche sembrano ancora confinate in sedi di non primaria importanza, quando non largamente disertate: in effetti manca, a oggi, una riflessione critica condivisa sull’uso delle nuove tecnologie e non sembra essersi sviluppata una consapevolezza metodologica relativa ai progetti editoriali da inserire su internet.

Tra la maggioranza degli storici continua inoltre a prevalere un uso strumentale accessorio del computer e del Web, dei quali non paiono essere stati colti ancora il valore e le potenzialità, soprattutto nel caso delle nuove forme di comunicazione del sapere. La pubblicazione on line, in questo senso, resta priva di autorevolezza e assume carattere ancillare di sede secondaria, e quasi sempre a posteriori, di materiali concepiti per la carta stampata: condizionamenti che inibiscono anche i ricercatori più giovani nel valutare in termini positivi l’eventualità di pubblicare in forma digitale.

 

«Poiché mentalità e comportamenti si plasmano all’interno di cornici di riferimento normative e istituzionali, l’incerta definizione dello statuto legale delle pubblicazioni elettroniche fruibili in rete rende particolarmente difficile una loro seria affermazione. In mancanza di una chiara normativa sul deposito legale delle pubblicazioni on line, ogni iniziativa seria che intenda avvalersi in maniera univoca e sistematica delle risorse telematiche rischia di essere costretta ad un ambito di semi-clandestinità, a fronte di una realtà editoriale cartacea che può contare su una consolidata tradizione giuridica (…). Per le pubblicazioni accademiche questa incertezza ha implicazioni rilevanti, ai fini soprattutto della valutazione dei titoli e della riconoscibilità scientifica dell’autore»,

R. Minuti,  Le frontiere editoriali, in Il documento immateriale. Ricerca storica e nuovi linguaggi, in L’Indice dei libri del mese, Dossier 4 (maggio 2000), a cura di G. Abbatista e A. Zorzi.

In Italia, più che altrove, la difficoltà nel riconoscere il servizio che il calcolatore e la Rete possono offrire sembra in ultima istanza legata ad un pregiudizio: l’impressione che il sapere umanistico, per effetto di strumenti innovativi, possa diventare un sapere tecnologico e quindi possa perdere quei valori tradizionali che hanno sempre accompagnato gli sviluppi della cultura italiana.

La convinzione che oggi si stia entrando in una fase nuova, legata all’emergere – in parte ancora embrionale – di nuove tendenze della ricerca storica, si inscrive dunque all’interno di una trama di rapporti tra tradizione e innovazione che l’avvento delle tecnologie informatiche, e ancora di più del Web, sembre avere inesorabilmente ridisegnato.

Già a conclusione di uno dei primi congressi dedicati al rapporto tra storia e computer, tenutosi in Inghilterra – il paese che ha probabilmente rappresentato l’avanguardia europea nell’uso e nella riflessione sui mezzi elettronici – era stato sottolineato con forza il fatto che l’ingresso del computer nelle analisi storiche, lungi dal rappresentare un elemento metodologicamente dirompente, costituisse piuttosto la conferma di un protocollo già largamente affermato. 

Ma queste considerazioni non hanno paradossalmente impedito, nel corso degli ultimi anni, il diffondersi di numerose chiusure: a chi ha sollevato perplessità, appoggiato da un deficit culturale e di prospettiva che ha condotto – passando attraverso la difficoltà a familiarizzare coi prodotti e i metodi nuovi propri dell’era della comunicazione telematica – ad una incapacità nell’anticipare gli esiti e i vantaggi di una rivoluzione in fase di svolgimento,  si sono affiancati coloro che hanno addirittura negato lo stesso tema affermando che – trattandosi in fin dei conti di semplici macchine, più sofisticate ma non essenzialmente diverse da quelle già esistenti – nessun influsso le tecnologie elettroniche potrebbero avere sulla metodologia delle discipline umanistiche, ma solo alcune conseguenze, limitate all’aspetto pratico del lavoro degli studiosi.

In questa continua riaffermazione del carattere puramente strumentale del computer e di Internet, nel rifiuto a riconoscerne il rilievo metodologico e talvolta anche fondazionale nelle applicazioni umanistiche, si cela – come ha evidenziato Gino Roncaglia – una singolare cecità teorica:

Proprio chi ha studiato, e anzi teorizzato, la non neutralità degli strumenti materiali di produzione della cultura rispetto alle forme della cultura stessa, chi ha messo in rilievo la portata dei cambiamenti introdotti dalla rivoluzione gutenberghiana nelle forme della testualità, sembra oggi in molti casi sorprendentemente insensibile davanti allo studio delle caratteristiche e delle potenzialità della testualità elettronica, dell’interattività, dell’integrazione multimediale,

G. Roncaglia, Informatica umanistica: le ragioni di una disciplina, in Intersezioni, 23 (2002) 3, pp. 353-376.

Lo studioso pone l’accento su quello che forse è l’elemento maggiormente avvertito come estraneo alla tradizione storica e filologica dell’opera chiusa, compiuta, intangibile: la fluidità del documento elettronico, la sua natura aperta, instabile, interpolabile, che influenzano e modificano la stessa percezione del testo.

Non a caso, in molti sentono il bisogno di farne una stampa, anche quando non sarebbe strettamente necessario: finchè esso non è sulla carta sembra quasi che non esista davvero, che sia effimero e immateriale1.

In questo senso, la refrattarietà degli umanisti – e degli storici – verso le nuove tecnologie, ha davvero qualcosa di paradossale.

La fine della storia, da molti paventata, derivererebbe dalla natura tendenzialmente astorica e antistorica dei nuovi media, che produrrebbero un pervasivo processo di presentificazione e di frammentazione della conoscenza.

Ma  l’idea che la storiografia debba subire passivamente le tecnologie informatiche e telematiche è profondamente errata: 

come ogni relazione che si instituisce tra i mutamenti  delle forme e dei modi di comunicare e i mutamenti degli universi socio-culturali, anche il rapporto tra storia e computer non è determinato da una relazione di causa-effetto, ma da un complesso intreccio di reciproche influenze,

G. Monina, La storia irretita. “Crisi della storia” e tecnologie di rete, in ParoleChiave, 34 (2005). Reti, pp. 127-146.

Il computer, in altre parole, non conduce verso una società senza carta, verso una crisi della storia di carta, così come – ovviamente – l’automobile non ha reso obsoleto camminare.

L’evoluzione tecnica, piuttosto, prevede l’idea di un arricchimento delle possibilità di mediazione offerte dalla scrittura: così come questa non ha eliminato il linguaggio, i nuovi media non elimineranno il libro. Al massimo, ne cambieranno la funzione storica e sociale.

Argomentazioni simili in H. Schulz-Forberg, Intermedialità e Storia: saggio sulle possibilità della storiografia e sulla rappresentazione della storia, in Memoria e Ricerca, ns. 11 (2002).

La diffusione esplosiva, proprio negli ultimi anni, del fenomeno Internet, ha in ultima analisi messo in luce la precarietà e la storicità di ogni riflessione: per quanto retorica, la stessa domanda che Manfred Thaller poteva ancora porre nel 1985 – «possiamo permetterci di non usare il computer?»– appare in fin dei conti irrimediabilmente obsoleta2.

Le risorse di sicuro valore per gli studi storici e umanistici di ogni ambito disciplinare accessibili in Rete si contano ormai a migliaia, e sempre meno giustificabili appaiono gli atteggiamenti di sufficienza verso una realtà in espansione, che tende a coinvolgere in modo sempre più profondo tutti i tradizionali settori della ricerca e della didattica:

«fare ricerca oggi senza la consapevolezza dell’esistenza di strumenti, servizi e risorse telematiche rischia quindi di trasformarsi in un arroccamento inutilmente conservatore»,

G. Abbatista, A. Zorzi, Introduzione a Il documento immateriale. Ricerca storica e nuovi linguaggi, in L’Indice dei libri del mese, Dossier 4 (maggio 2000), a cura di G. Abbatista e A. Zorzi.

 

È evidente che non si debbano sottovalutare troppo alcune delle più comune obiezioni che si fanno all’applicazione delle nuove tecnologie alla storiografia.

Molte di esse hanno un fondo di verità: il timore di vedere snaturata la professione dello storico con l’imposizione di scienze che gli sono aliene, la diffidenza per l’immagine digitale come documento, la riduzione della sensibilità interpretativa e la paura dell’avvento di una mentalità esclusivamente computerocentrica.

 

Tuttavia, piuttosto che pensare a come il computer potrebbe distruggere la tradizione degli studi storici, bisognerebbe chiedersi come esso possa aiutare a conservare uno sguardo critico di fronte all’evidenza di un sapere che è ormai un dato accertato.

Analogamente, la ricerca storica non dovrebbe accettare in modo acritico il modello digitale, nei confronti del quale bisognerebbe comunque mantenere atteggiamento sperimentale e una posizione di attesa, non rinunciando a fissare alcuni punti fermi.

Solo alla luce di queste riflessioni è possibile tentare un plausibile rapporto creativo tra sapere storico e organizzazione digitale dell’informazione.
La crisi della storia non sarà, dunque, un portato delle tecnologie elettroniche e di rete, della loro presunta natura antistorica, ma in ultima analisi, la conseguenza dell’assenza di una capacità di reazione e di un’assunzione di responsabilità critica da parte di chi opera la ricerca.

«La memoria è un atto di volontà, è azione sul presente, inevitabilmente critica; è scelta. Lo si voglia o no. Il fatto che oggi la valenza interpretativa della memoria sia oscurata, negata dal problema del contenimento meccanico, fa torto all’uomo, all’effettivo grande aiuto che può venirci dalle macchine»,

L. Toschi, Il multimedia d’autore. Un linguaggio per la memoria del futuro?, in Linguaggi e siti: la Storia Online, dossier tematico in Memoria e Ricerca, n.s. 3 (1999).

Le tecnologie, passate e presenti, possono essere determinanti, ma sono anche il risultato di diverse forze in gioco: esse rappresentano delle scelte, non un destino.

 

 

 


1 Per queste considerazioni cfr. F. Carlini, Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione di rete, Torino, Einaudi (Piccola Biblioteca Einaudi, 314) 1999, p. 35.

2  Cfr. M. Thaller, Possiamo permetterci di usare il computer? Possiamo permetterci di non usarlo?, in Quaderni Storici, 60 (1985), pp. 871-889.