La “metafonte”: una rivoluzione annunciata
Le parole Domenico Fiormonte, filologo, italianista, sperimentatore delle tecniche di archiviazione informatica e tra i fondatori dello statuto scientifico dell’Informatica Umanistica in Italia, sottolineano come, con l’avvento delle tecnologie informatiche, si sia verificata una svolta epocale nel sapere e nelle sue rappresentazioni, sintetizzabile nel transito «dal materiale all’immateriale».
Il problema – e lo evidenzia anche il progetto qui presentato – ha investito in modo inequivocabile il concetto stesso di risorsa storica.
L’edizione del cartulario monrealese, nel passaggio dalla carta al bit mediato dalla codifica digitale, ha determinato un prodotto profondamente differente dall’originale, tanto da assumere una nuova definizione.
Non più fonte, meno che mai una fonte trasportata in ambiente informatico ma, piuttosto, metafonte.
Col termine si è voluto intendere non la semplice trascrizione digitale dei documenti o i più raffinati processi di codifica testuale su di essi realizzati, bensì una diversa e più complessa pubblicazione, con la vocazione di offrire la possibilità di affiancare all’edizione del testo una gamma di strumenti di indagine – regesti, inventari, immagini, saggi, bibliografie, database, motori di ricerca – in grado di arricchire il prodotto editoriale e determinarne nuovi modi di lettura e fruizione.
Il concetto di metafonte, con il suo carico di implicazioni epistemologiche, è stato introdotto da Jean-Philippe Genet durante il VII Congresso Internazionale dell’Associazione History and Computing, tenutosi a Bologna nel 1992, per indicare la dimensione intermedia, nella gerarchia della documentazione storica, generata dalla creazione di nuove fonti – elaborate informaticamente – da parte dello storico.
Giustamente lo studioso ha sottolineato come sia stato lo stesso medium informatico a modificare il concetto di fonte: introducendo i propri parametri interpretativi la codifica digitale non ha fornito, ai suoi occhi, una tecnica riproduttiva, ma l’opportunità di alterare il tradizionale meccanismo di trasmissione e comunicazione della fonte, creando un differente oggetto documentario.
Teorizzando la nascita della metafonte Genet ha inoltre messo in evidenza quella che secondo lui rappresenta «la novità più radicale, quanto ambigua, introdotta dall’informatica in campo storico», vale a dire la necessità – indotta dalla possibilità crescente di elaborare dati, testi, immagini attraverso collegamenti ipertestuali e soluzioni multimediali sempre più sofisticate – di riformulare la questione delle fonti come veicolo rappresentativo della realtà.
Nelle prime lo studioso aveva individuato quei materiali trasmessi ad hoc dal passato e aventi come fine la rappresentazione o il ricordo che vi era stato registrato: dunque, qualsiasi documento, qualsiasi monumento, qualsiasi testimonianza che fosse in grado di trasmettere allo storico il ricordo diretto di un fatto. A questa classificazione lo storico accompagnava tre regole critiche: il criterio dell’immediatezza delle fonti, secondo il quale un testimone era tanto più credibile quanto meno avesse avuto l’intenzione di testimoniare il passato; il criterio della prossimità ad un evento, da cui sarebbe discesa una maggiore affidabilità del documento; in ultimo, l’idea che la fonte non-scritta fosse più attendibile di quella scritta.
Ma dopo Droysen, il rinnovamento avvenuto nella sostanza e nel problema delle fonti – con uno spostamento decisivo di attenzione dal solo contenuto alle forme di trasmissione – mutava sostanzialmente i problemi epistemologici della disciplina che ha costituito l’indispensabile premessa di un discorso storiografico: sicchè attraverso un percorso teorico convergente, tanto il pensiero filosofico quanto la riflessione storiografica hanno via via finito col consumare i presupposti di questa ortodossia delle fonti.
Dietro alle dichiarazioni programmatiche dei suoi fondatori, le Annales manifestavano infatti – in termini che allora apparivano rivoluzionari – una reazione contro una concezione della storia basata su una teoria ristretta delle fonti, limitate ai soli testi degli archivi ufficiali, nella convinzione che altri archivi, altri testi, altre letture potessero non soltanto fornire indicazioni utili sul passato, ma soprattutto rovesciare le tradizionali prospettive con cui, fino a quel momento, si erano condotte le indagini storiche.
Assumendo l’ottica del pluralismo cui era sottesa, in primo luogo, la volontà di respingere i dogmi proprii della tradizione storica occidentale, Bloch e Febvre avviavano anche una feconda riflessione sulle pratiche di conservazione, fissazione, ricostruzione e reintrepretazione della memoria storica, cui si affiancava l’attenzione alle occasioni offerte alla ricerca dallo sviluppo di altre discipline. Già settant’anni fa, le Annales avevano intuito come in nuove domande, nuovi concetti e nuove metodologie fosse insita la possibilità di suggerire indagini alternative, elaborare dati innovativi, sviluppare tecnologie. Il proposito dichiarato dal movimento delle Annales – quello di una storia totale, fondata su una definizione aperta e potenzialmente illimitata delle fonti – lascia intuire come una revisione della nozione di fonte storica si sia venuta via via sviluppando in parallelo all’esperienza e all’evoluzione naturale del lavoro storico, ma anche alla luce di nuovi interessi e nuovi atteggiamenti culturali e nel contatto con discipline “altre”. In questo percorso la fonte, ma anche gli stessi concetti di ricostruzione e conoscenza del passato, si sono configurati in ultima istanza come il risultato di un processo continuo di mutazione delle tecniche e delle metodologie di indagine. Tuttavia, nonostante la rivisitazione dei principi esegetici elaborati dalla tradizione europea, l’avvento delle tecnologie informatiche e la connessa nascita di nuovi tipi di fonti e di trattamento ed elaborazione delle vecchie è stata avvertita come una rottura radicale, costringendo a riformulare ancora una volta i criteri e le tecniche di approccio alle fonti storiche. A ben vedere però, il breve excursus delineato sembra smentire l’idea che i fenomeni connessi all’utilizzo del computer producano una lacerazione realmente profonda tra il passato e la contemporaneità: non di rivoluzione si dovrebbe parlare forse, se non nei termini di una rivoluzione annunciata.
Come ha sintetizzato Rolando Minuti,
In questo senso, l’utilizzo dei mezzi telematici ha forse reso definitivamente evidente ciò che in qualche modo era già stato superato da un secolo di riflessioni e dibattiti: una teoria delle fonti preteziosa, fondata su una classificazione netta e su ontologie definitive ma ormai consumate. Eppure, questa consapevolezza non rende il lavoro dello storico più facile e più comodo.
L’accettazione della metafonte come oggetto storico caratterizzato da provvisorietà, perennemente allo stadio di semilavorato e sempre suscettibile di mutamenti, lascia aperti tanti, troppi, interrogativi al ricercatore odierno. Quale funzione resta agli storici se i canali di elaborazione del passato e della memoria li scavalcano? Come salvaguardare l’importanza della storiografia in un universo a cui è difficile applicare gli strumenti di regolamentazione ideati per supporti materiali? Sono ancora adeguati i metodi di analisi e di critica delle fonti storiche di fronte alle novità di cui sono portatori gli archivi, i documenti, gli oggetti digitali in genere? Come cambia il rapporto degli storici con le fonti digitali o metafonti, nel modo di ricercarle, di utilizzarle e infine di comunicarle? Come lo storico convive con i problemi della immaterialità, dinamicità, fragilità, rischio di manipolazione dei documenti digitali? Quale sarà il destino delle fonti digitali? E di quelle tradizionali? E ancora, come cambia la costruzione di un testo storiografico? Si tratta, evidentemente, di domande che mettono in guardia da un approccio ingenuo alla codifica digitale, dal momento che il suo prodotto finale è qualcosa di ben diverso da un facsimile del documento originario: la metafonte – ma a ben vedere qualsiasi edizione critica, anche se condotta su canoni tradizionali, in quanto frutto di manipolazione documentaria – è il risultato di un processo di elaborazione e ricontestualizzazione assolutamente non-neutro,che non ammette ingenuità. Già negli anni Ottanta François Furet, sottolineando come lo storico fosse obbligato a riflettere sulle condizioni di possibilità della sua scienza, rintracciava nell’utilizzo delle tecnologie informatiche l’occasione di compiere un lavoro preliminare sull’organizzazione dei dati e sul loro significato in rapporto alle proprie ricerche:
Dinanzi alla metafonte, lo storico non può dunque evitare di prendere coscienza che è stato lui a costruire i suoi fatti e che l’oggettività della sua ricerca dipende non solo dall’uso di procedimenti corretti nell’elaborazione e nel trattamento di questi dati, ma anche dalla loro pertinenza in rapporto alle ipotesi della sua ricerca. Il che significa un corretto approccio metodologico alla fonte, oggi come ieri. Ciò che cambia, in fin dei conti, è la consapevolezza che si manifesta nella costruzione di una risorsa digitale, di una metafonte, di compiere un processo di elaborazione e ricontestualizzazione assolutamente non neutro, e che quanto più visibile e forte è il disegno che ha in qualche modo sovrinteso alla loro messa in essere, quanto più quest’ultimo è riconoscibile ed esplicitamente affermato, tanto più la documentazione digitale risulta in fin dei conti utilizzabile come portatrice di un sovrappiù di conoscenza. Le fonti digitali – siano esse il risultato di trasposizioni o di elaborazioni di fonti tradizionali realizzate dagli storici o da altri soggetti oppure documenti prodotti fin dalla loro origine in formato digitale – pongono una stimolante sfida epistemologica. Allo storico, il compito di raccoglierla.
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